Toscana, 2002-2004
Stampe fotografiche e elaborazioni digitali
Il signore delle mosche versò l’acqua delle sorgenti sul selciato e sulle mura sbrecciate delle città in rovina. Fu come quando la neve si trasforma in ghiaccio secco e sporco, o come quando la vita diventa così difficile da sostenere che le giornate sembrano riflesse in un vetro opalino. Solo la terra, nella sua eternità, non si accorse né del tempo che stava sfumando sempre più velocemente né del brulicare degli insetti attorno a ciò che restava dell’estate. La terra, anzi, si fece scura, bruciata, fino a diluirsi nell’orizzonte di un momento che tutti avrebbero ricordato come unico ma che altro non era che il ripetersi dei passi delle ombre nell’autunno, le ombre che seguivano la stessa strada, da quando il mondo fu creato o si creò. Alla fine non restò altro da fare che aspettare la primavera, ma senza poterla indicare, nemmeno seguendone le tracce evidenti, nemmeno allungando la mano verso i misteri nascosti al di là del muro, oltre le siepi, in quello che restava del cielo. Il signore delle mosche era il padrone del mondo, il tempo e lo spazio erano suoi come nemmeno ai primi esseri umani era stato concesso. Ma perfino la sua sorgente inesauribile si prosciugò in quel giorno d’inverno che per ironia della sorte avrebbe potuto anticipare una festa. Gli insetti volarono via lasciando solo un’invisibile nebbia. Le mura della città si offrirono come altre volte ai turisti che cercavano qualcosa di indimenticabile ma non riuscirono nemmeno a intravedere i girasoli che ancora dovevano essere seminati. E il suo sguardo cercò inutilmente un punto dove perdersi. Lo sguardo di lei, lo sguardo di lui, lo sguardo dell’uno e dell’altro. Declinati verso il basso, per pudore, per non incrociare i suoi occhi di fuoco.