Faces parade

Silvi, da Faces Parade Silvi, da Faces Parade Silvi, da Faces Parade

Non vedo Fulgor da tanti anni, ma incontro quasi ogni giorno gli stessi segni che associavo alle sue opere, a quelle che ricordavo e che avevo visto galleggiare tra le nuvole che a volte passano sulle montagne che ci dividono e ci accomunano. Erano ritmi semplici, composizioni modulari costruite più su delle essenze astratte intuite attraverso la percezione e la memoria che su presenze riconoscibili affermate attraverso l’evidenza della visione: per questo, forse, li rivedo nella luce che si riflette improvvisamente dietro l’angolo di una strada, o in quelle sequenze veloci di forme e di colori che si accumulano nella mente all’inizio di una giornata, come in una specie di alba dell’anima. Di solito indicano una direzione tra le tante possibili, scavando nel dubbio che prevale quando ci si sente sospesi tra la capacità di negare che ci appartiene in quanto gente d’occidente (dopo aver letto Leopardi e Montale) e quella volontà di definire altri strati dell’esistenza che ci affascina dopo aver rivolto lo sguardo verso oriente in cerca di uno specchio in grado di restituirci ciò che resta, dentro di noi.

Ma ora vedo Fulgor di nuovo. Mi invia immagini diverse, apparentemente figurative, come se volesse dirmi che se allora cercava di rappresentare delle essenze, ora sta provando a raccontare delle storie. In realtà, non credo che sia proprio così. Per quello che posso comprendere dalle immagini che ingrandisco ed esploro su uno schermo digitale, tra ciò che ricordavo del lavoro di Fulgor e ciò che vedo oggi c’è più continuità di quello che può sembrare. Restano ad esempio intatti, come un marchio di stile, i ritmi delle sequenze guidate dai colori, dalle linee, dalle forme. Hanno solo un aspetto diverso, ma sono sempre elementi di un confine fluido, come le acque di un fiume che scorre tra una sponda dove Eraclito ragiona e una dove Siddharta osserva e contempla. Ciò che chiamiamo arte è proprio lì, in quella corrente che separa lo scienziato dal visionario, il filosofo dall’asceta, lo sguardo spietato della razionalità dalla mistica delle emozioni. Possiamo anche immaginare di fermarlo questo stream of consciousness, ma è più probabile che ci si debba limitare a seguirlo con lo sguardo, senza poterne modificare lo spessore liquido, e quindi senza (letteralmente) comprenderlo. Soprattutto quando – come in questo caso – si evolve dalla complessità che di solito si associa all’astrazione alla semplicità che (chissà poi perché) si attribuisce all’illustrazione, anche se in questi personaggi che Fulgor espone oggi al nostro cospetto (o forse ci mette semplicemente accanto) direi che c’è più la leggerezza dell’essere che l’apparenza dell’esistere, più consistenza che visibilità.

E poi, a guardarli meglio, immaginandoli come tasselli di un grande mosaico o come individui in cammino verso di noi, questi personaggi sono frammenti di un’umanità provata ma che non accetta di essere sconfitta. Che si aggrappa a qualcosa che rende ciascuno unico e allo stesso tempo parte di un affresco che non è ancora finito, e non lo sarà mai. Ciascuno di loro custodisce oggetti simbolici sempre diversi. Ciascuno di loro ci regala una sfumatura di uno stesso sguardo, e un ramoscello che forse è un’allusione alla speranza, forse un modo per immaginare che si possa costruire un ponte per attraversare il fiume del tempo, o forse soltanto l’eco simbolica di un linguaggio comune, ovvero il segno di una comunità di intenti, della stessa appartenenza a qualcosa che, non so perché ma so che è così anche se ne soffro, associo più ai cori della tragedia antica che al concetto di popolo di cui spesso si abusa. Che cosa accadrà adesso? Riusciranno a dialogare tra loro? O resteranno soli, ciascuno sull’orlo del proprio abisso? Si eviteranno ancora? O troveranno un modo per incrociare i loro occhi e ri-conoscersi? A pensarci bene, sono figure malinconiche, i nostri compagni di viaggio nello stesso deserto che stiamo attraversando. Incontrarli potrebbe aiutarci a capire se c’è una strada, e se vogliamo davvero imboccarla: un miracolo di semplicità, a patto che si abbiano occhi per osservare, e quella capacità ormai obsoleta che consiste nel cogliere relazioni, assonanze, costanti, variabili. Quel tanto di somiglianza e quel tanto di diversità. E se proprio non puoi la vita che vorresti, cerca almeno questo per quanto sta in te…

Per Fulgor C.Silvi, Faces Parade (installazioni). ExpArt, Bibbiena (AR), 3 dicembre 2011 – 8 gennaio 2012.

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