Contemporanea mente

S embrano
e rrori
g ettati
n ell’
i nconscio.

Contemporanea mente. Quando ripropone la pittura senza velare la polemica con i mercanti d’aria. Insieme a tutto ciò che si manifesta in una forma semplice o in una linea retta. In cui tutto, dall’immaginare al dipingere, avviene nello stesso momento.

Potrei scrivere parole già scritte. Riaprire il prediletto Arnheim alla pagina giusta, quando parla dell’ordine utile, il Worringer al primo capitolo, quando vede nell’arte i due poli necessari della tendenza all’astrazione e del bisogno di empatia, e ancora il Gombrich, che spiegherebbe meglio di me il rapporto tra scrittura e struttura, senza neppure disdegnare il vecchio Marangoni, che in fatto di scienza della visione ne sapeva una più del demonio. Farei bene il mio mestiere. Ma ne andrebbe della mia voglia di osare qualcosa di nuovo ogni volta che descrivo un tuo quadro.

Potrei parlarti dell’avanguardia e del suo significato sempre meno oscuro, di ciò che è stata e di ciò che è, di quanto è importante esserne stati sfiorati, di quanto è difficile esserne parte. Di come sia diventata irrespirabile l’aria che emana, e del perché sia meglio praticarla senza dichiararlo, snaturandone così la sostanza, rendendo sacro ciò che dovrebbe apparire osceno. Ma ne andrebbe della mia stessa speranza di potermi aggrappare ai lucidi pomi d’ottone dell’intelligenza ogni volta che riparlo d’arte.

Potrei citare le ombre di Licini e Prampolini, i fantasmi di Malevic e di Rothko, il fardello della Transavanguardia, l’estetica neobarocca in tutte le sue sfumature – ritmo e ripetizione, dettaglio e frammento, instabilità e metamorfosi, complessità e dissipazione – e quant’altro ancora costituisce l’apparato consueto di una mostra. Ma ne andrebbe del mio desiderio di rovesciare come un guanto usato la professione del critico ogni volta che mi riferisco a un autore.

Potrei. Ma ne andrebbe della mia stessa dignità di scrivente. E di amico.

Allora, ciò che leggerai sarà diverso da ciò che ti aspetti.

Ti citerò, dunque, un poeta scandinavo, che nel deserto tessuto del cielo rivede le misteriose scritture dell’oriente e nelle cicatrici delle pietre riscopre i geroglifici egizi. E un fotografo svizzero che cerca le tracce dell’uomo in riprese aeree lontanissime, in un nitido insieme a due dimensioni, fatto però di particolari invisibili (ed è probabile che ti piacerebbero).

Ti parlerò di Bisanzio, piuttosto, dei suoi misteri, del suo tempo distillato dalle clessidre: uno, due, tre. Di quelle sequenze di simboli apparentemente identici, che poi si interrompono con una brusca cesura, un taglio, un cambio di direzione. Della terra di quell’arte dove tutto sembra uguale, ma tutto è ogni volta impercettibilmente diverso (e ancora non abbiamo riflettuto abbastanza su quell’impercettibile diversità).

Ti scriverò, infine, di quando ho visto le tue tele srotolate e distese sul pavimento, e di come quell’immagine mi torni spesso alla mente: se tu unissi tra loro una manciata qualsiasi dei tuoi stendardi dipinti forse tutte le mappe che riproducono si ricongiungerebbero, le strade alle strade, gli arabeschi agli altri ricami, le planimetrie delle montagne incantate ai campi disseminati di erbe, i colori brillanti e caldi alle fredde nebbie azzurre e bianche, la vergatura della carta Fabriano alle incisioni dello stilo sulla tavola nera (e non è da escludere che un intero viaggio interminabile si possa cominciare, su quel tappeto volante).

S ono
e nigmi
g alleggianti
n ell’
i mmaginazione

Per Fulgor C.Silvi, in mostra alla Galleria Contemporanea, Arezzo, aprile 1993

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