Ci sono luoghi che ti scivolano addosso e luoghi che ti entrano dentro per sempre. Ci sono luoghi che non si ricordano e luoghi che non si dimenticano. Ci sono luoghi che non ti parlano neppure quando il rumore è insopportabile e luoghi che riescono a parlarti anche quando il silenzio che li circonda è rarefatto come l’aria limpida in cui sono immersi. Le Cicladi sono luoghi che restano: sono isole nella memoria, sussurri al di là del tempo. Ogni volta riescono a cambiarmi l’anima. La riportano a ciò che era prima che il superfluo che ci circonda la corrompesse: forme pure come la terra su cui si adagiano, luci improvvise nella notte, ombre essenziali e taglienti nella solitudine del mezzogiorno. La depurano e la devastano. La inondano della pace che esprimono e della violenza che racchiudono. La uccidono e la rigenerano, costringendola a guardare oltre il precipizio, lungo quel bilico che è la vita stessa: un gioco tra il crepuscolo e la luna, tra l’alba e il sole, tra una condanna trasparente e intensa come l’azzurro del mare e una salvezza tracciata sulle rocce aspre profumate di timo. Qui tutto diventa semplice. E ogni limite appare smussato come calce ammorbidita dagli anni e dal vento o come la malinconia di un’improvvisazione al pianoforte. Qui tutto è respiro, e anche i colori dopo un po’ di tempo non significano più nulla. Restano solo ciò che il buio nasconde e la luce rivela. Il disegno di un sentiero. Una linea d’ombra che somiglia all’eternità.
Cycladic Moon (studi preliminari). Dai diari visivi di Sifnos, Milos, Folegandros e Sikinos (2009-2011)