Qual è il valore delle cose? Un anno fa mia madre se ne è andata, ora sto svuotando la casa dove viveva e non posso fare a meno di pensarci. Vedi, la memoria ha il vantaggio di essere immateriale, liquida, trasparente, non occorre parlarne per capire quanto sia preziosa, né delimitarla in uno spazio o in un tempo; nella nostra mente tutte le mattine del mondo possono entrare in una vecchia scatola di biscotti, nel nostro cuore i prati di fiori bianchi possono essere attraversati in un attimo. Ma le cose no. Gli oggetti materiali che di quella stessa memoria sono testimoni e in cui a volte i ricordi si concretizzano, sono opachi, solidi: possono essere inventariati e misurati, e prima o poi devono essere collocati, riutilizzati o venduti per poter essere, letteralmente, compresi. In quel momento pensi che le cose abbiano comunque un valore. Magari non quello che tu gli attribuisci, ma qualcosa che si avvicina, se non al loro significato, almeno alla loro consistenza. Sono soltanto cose, ma in molte si percepisce il lavoro del falegname o dell’orafo, in altre traspare la fatica di una cura che ormai nessuno pratica più: e so bene che tutto questo per i miei genitori rappresentava un valore. Purtroppo, però, tutto è cambiato, e il concetto di valore che i miei genitori avevano racchiuso nelle cose è stato completamente stravolto, non esiste più. Ingenuamente, mi rivolgo agli antiquari, che si tirano indietro, mi dicono che hanno già pezzi simili o che si tratta di oggetti che non hanno possibilità di essere inseriti nel loro giro. In realtà sarebbero più che disposti ad acquistarli. Per due soldi, però. Per rivenderli a dieci volte il prezzo che li hanno pagati. A me sembra aberrante, ma forse non ho contattato gli antiquari giusti, saranno mica tutti così? I responsabili di un mercatino dell’usato invece mi dicono che verranno a vedere e faranno delle stime. So che si tratta di gente onesta, mi fido. Facciamo insieme un inventario di massima e a quel punto mi aspetto che prenda finalmente forma il valore delle cose, non quello incommensurabile della memoria che tramandano, ma almeno quello materiale, che pensavo dipendesse dalla bellezza degli oggetti, dal lavoro che racchiudono, dai materiali, dall’antichità, dallo stato di conservazione. Ma non è così: i parametri di valore in cui credevano i miei genitori non contano più nulla. Ormai c’è un solo parametro, si chiama “mercato”. Le cose non hanno più un valore in sè, valgono quanto chi potrebbe acquistarle è disposto a pagarle, e il responsabile del mercatino, che conosce bene il suo mestiere, me lo spiega in modo chiaro, con lo stesso linguaggio di un consulente finanziario. Scopro così che bisogna ragionare in termini relativi, che l’idea che mi ero fatto era astratta, velleitaria, perché partiva dal presupposto che dalla vendita di mobili e oggetti che per decenni hanno fatto parte della vita dei miei genitori avrei dovuto ricavare una cifra che potesse rappresentare un compromesso simbolico, ragionevole, tra il valore (certo esagerato, irrazionale…) che quelle cose hanno per me e l’importanza oggettiva di quelle stesse cose, in quanto tali. Non saprei neanche quantificare il risultato di questo compromesso. Ma mi aspettavo decisamente qualcosa di più. In realtà non è questo il problema: che le cose di cui sto parlando “in questo momento non abbiano mercato” e debbano essere vendute ad un prezzo molto basso e inferiore al loro valore potenziale (sic!) posso anche capirlo. Quello che non riesco ad accettare è il messaggio implicito di questo ragionamento, e soprattutto i criteri in base ai quali le cose acquisiscono il corrispettivo di un valore in relazione al cosiddetto mercato. Perché il valore assegnato a un tavolo d’epoca realizzato da un artigiano è più o meno quello di un paio di scarpe da ginnastica uguali a tutte le altre (ma con un marchio più evidente) e magari assemblate a nostra insaputa da un minorenne vietnamita? Ancora, a titolo esemplificativo, il valore assegnato a una vetrinetta liberty con inserti in bronzo e cristalli molati è minore del costo di un telefonino made in China o di un pezzo di plastica assemblato in Thailandia per Ikea; e con quello che presumibilmente potrò ricavare dalla vendita di una poltroncina dei primi del Novecento riuscirò sì e no a pagarmi un aperitivo in centro. Delle due l’una: o alle cose dei miei genitori è stato assegnato un valore troppo basso, o il valore di molte delle “cose” che il mercato ci propone e ci spinge ad acquistare ogni giorno è esagerato, fuori luogo, colpevolmente alto. Sono propenso a credere che sia più vera la seconda ipotesi, e che la perdita di valore delle cose che hanno un vissuto non sia altro che il risultato di un modello consumistico aberrante, il cui scopo è vendere velocemente e con elevati ricavi oggetti sempre più brutti, inutili e deperibili, giustificandone il prezzo (il prezzo…) attraverso gli elementi di una sorta di mitologia dell’inconsistenza: la novità, il marchio, la tendenza. Con la conseguenza che niente, di fatto, ha ancora realmente un valore, se per valore si intende la cura, la capacità di durare nel tempo, il significato: sono soltanto cose a cui non possiamo affezionarci, da usare e gettare via, per poterne comprare ancora di nuove, sempre più brutte, inutili e deperibili, e ad un prezzo molto più alto del loro valore reale, quello stesso valore che è negato alle cose che ci appartenevano. Se questo, oggi, è il mondo, è inutile cedere alla nostalgia o al moralismo. Ma quello che mi chiedo è: perché mai dovremmo stare al gioco? Perché mai dovremmo svendere la nostra memoria e il nostro passato per comprare oggetti senza futuro?
Natale 2010, corsa agli acquisti sfrenati (alla faccia della disoccupazione e della crisi), la ricerca dei regali più adatti, dell’oggetto che stupirà tutti, dell’accessorio che quell’amico cercava da tempo, dell’ultimo modello di telefono o lettore mp4 o di chissà quale altra diavoleria tecnologica. Una marea di oggetti invadono casa nostra, alcuni belli, altri un po’ meno, comunque tutti decisamente non indispensabili, per non parlare dello spreco di carta e plastica per imballaggi e pacchi.
Il mio Natale quest’anno sarà diverso. Saranno 12 biscottini di pasta frolla con la ricetta di una cugina, gli ingredienti comprati nella bottega sotto casa, preparati nei giorni scorsi a casa mia, il forno acceso, la tv che da qualche vecchio film in sottofondo, il profumo della farina e del cacao in polvere. Stesso regalo per tutti, preparato da me, inevitabile pensare alle persone che lo riceveranno mentre versi lo zucchero o pesi le nocciole tritate. Ecco il valore dei miei regali, ecco il valore delle cose date con il cuore. Può essere un prezzo altissimo per l’acquisto o una spesa praticamente a zero, ma certi regali, certi oggetti lasciati in eredità si portano pezzettini di cuore dentro.