Caro Natale, ti scrivo direttamente, anche se non sono sicuro che tu possa ricevere questa mia, per chiarire la mia posizione attuale rispetto alla festività che rappresenti e agli auguri che circolano in questi giorni. Ti premetto che a me non piace la nostalgia. Mi lascio andare con una certa frequenza alla malinconia, ma è diverso. La nostalgia è pensare a ciò che è passato come se potesse tornare. La malinconia è sapere che non tornerà, accettare il passato e i ricordi per quello che sono: memoria, conoscenza, cultura. Questo è il senso della lettera che ti sto scrivendo: ed è importante che tu sappia subito che per quanto possano apparire malinconiche le mie parole non sono né vogliono essere nostalgiche, né un modo per annegare nei rimpianti questo periodo così difficile.
Come sai già, ogni anno, in questo stesso periodo, cerco di dare una forma al mio personale messaggio di auguri. Di solito inseguo un filo conduttore, un tema. Più spesso costruisco un’immagine, che questa volta è più spontanea e più semplice, soprattutto grazie alla nevicata di sabato scorso, che mi ha permesso di raccogliere molte belle fotografie, facili da elaborare. Ciò nonostante, il risultato è una visione doppia come la complessità della vita e fluida come i cicli del tempo. Perché quello che continua a riaffiorare in queste ore non è una rappresentazione di questo Natale ma il ricordo nitido di altri momenti di avvicinamento al Natale, in altre epoche, le chiamo così per poterle percepire con la giusta malinconia, ma senza nostalgia. In realtà è come se cercassi di comprendere il senso di qualcosa che anno dopo anno non riesco più a definire, a riconoscere, ad ascoltare. Questo è il vero problema: caro Natale, che significato hai oggi? E dov’è quel fiore rosso che vorrei idealmente mettere sotto un albero simbolico, carico di neve? Esiste ancora?
Ricordo molto bene che senso avevi, caro Natale, nei primi anni 70. Ero poco più che un bambino, certo, ed è normale che a Natale mi lasciassi andare all’euforia. Ma non era per i regali, a me ne bastava uno, di solito c’era un gioco che mi piaceva ed era sufficiente quello, il resto dei pacchetti non aveva importanza, e in ogni caso erano pochi, erano pensieri, li chiamiamo ancora così ma non sono certo che abbiano lo stesso valore. In realtà ero euforico per due ragioni precise, due eventi quasi rituali che accadevano di nuovo, ogni volta, tra il 24 e il 25 dicembre. Il 24 dicembre con mio padre andavamo nei boschi intorno alla città a cercare il muschio (da noi si chiama “borraccina”). Era una bella passeggiata, tra sentieri induriti dal gelo e torrenti: raccoglievamo, oltre che il muschio morbido e profumato, anche rametti di pungitopo, piccoli tronchetti contorti, qualche sasso dalla forma strana. Poi tornavamo a casa e con ciò che avevamo raccolto cominciavo a costruire un grande presepio: prati di muschio, rametti come alberi, tronchi e sassi per fare grotte e montagne. Mio padre mi aiutava ma facevo quasi tutto io, lui magari preparava l’albero con mia madre, un albero vero, un abete che portava in casa l’odore del bosco, come il muschio, quasi un legame tra noi e il paesaggio. Così come un paesaggio era il presepio. Quelle giornate spese a ricostruire paesaggi fatti di poche cose trovate nei boschi e di odori, di decorazioni di vetro che mia madre non voleva che maneggiassi troppo perché erano fragili per un ragazzino, di statuette accumulate in anni e anni e che volevo usare tutte, compresi 3 re magi di cartapesta, altri 3 di terracotta e altri 3 di plastica, fino a provare a ricostruire l’ambientazione di antichi dipinti, quando, crescendo, cominciavo a scoprire la passione per l’arte, ecco, quelle giornate restano uno dei miei ricordi più belli di quegli anni. L’altro è la cena della vigilia e il pranzo di Natale: mia madre e le sue sorelle che cucinavano, e io che qualche volta giravo la manovella della macchinetta per stendere la pasta dei tortellini, e mia zia che passava il pollo, la faraona e il fagiano sulla fiamma per pulire meglio la pelle, e mia madre che controllava l’arrosto mentre io cercavo di rubare una patata, e poi i crostini, le rape saltate e i “gobbi” rifatti, il brodo, il ragù, e tutta quella preparazione, quei profumi, quei sapori che sicuramente hanno segnato la mia passione per la cucina. Il pranzo era grandioso, ma in fondo era un Natale semplice: e non ho mai sentito nessuno dire che era il momento di essere più buoni. Sapevamo già di esserlo, ci bastava poco per esserlo perché ci bastava poco per sentirci felici.
Il secondo ricordo che è riaffiorato in questi giorni è completamente diverso. È il Natale della fine degli anni 80. Allora mi sembrava che non fosse poi tanto diverso da quello che ti ho appena cercato di raccontare, ma ora mi rendo conto che tutto era cambiato. Erano feste spensierate, opulente, con decine di pacchetti sotto l’albero, molti regali costosi (non riesco ancora a capacitarmi di come potessi in quegli anni spendere per i regali una cifra 10 volte superiore a quella che riuscirei a spendere oggi senza vergognarmi…) e qualche importante novità. Il presepio non c’era più, e neanche l’odore del muschio, ma l’albero era un abete di grandi dimensioni, pieno di luci. Pensavo io alla cena della vigilia, e sperimentavo nouvelle cuisine a base di pesce. Devo dire che me la cavavo piuttosto bene: mia madre apprezzava, mio padre un po’ meno ma non avrebbe mai osato dirmelo. Non si riunivano più tutte le famiglie, qualcuno se n’era già andato. Ma il mondo sembrava che potesse essere migliore, la cronaca somigliava alla storia e parlava di speranze e di ideali, e finalmente potevamo lasciare sullo sfondo anni più oscuri e con meno possibilità. No, caro Natale, niente nostalgia: ti sto dicendo che era solo un modo diverso di percepirti, anche se forse è stato proprio in quel momento che abbiamo lasciato che i centri commerciali si impadronissero delle feste. Ma ancora non lo sapevamo.
Poi il tempo ha continuato a scorrere in avanti, aggiungendo e togliendo. Negli anni 90 a volte avevo così tanto lavoro che non mi accorgevo neanche che era Natale, è allora che ho cominciato a ricordarmi delle feste soltanto il giorno prima, dimenticando che in fondo era ciò che ho sempre fatto; solo che quando ero ragazzino il 24 era un giorno a passeggio nei boschi, mentre ormai stava diventando una corsa frenetica nei negozi in cerca di qualche idea (proprio così, idea: come se non si potesse più fare un regalo senza essere originali). L’albero non era più un abete ma una soluzione che per non so quale fraintendimento ideologico chiamavamo ecologica, mentre era solo una scelta un po’ triste per evitare di sporcare troppo in casa. Quest’anno, per il momento, non l’ho neanche fatto l’albero. Forse non riesco a riconoscere più un significato in quel residuo di rituale. In effetti, caro Natale, che cos’è rimasto di ciò che gli scrittori del secolo scorso avrebbero definito il tuo “spirito”? Non c’è più quasi nulla di tutto quello che dovresti ispirare, sia ai credenti che ai laici, e non abbiamo neanche più molto denaro da sperperare. Restano soltanto l’invadenza insopportabile della pubblicità e delle offertissime tutto compreso o sottocosto, la tristezza ripetitiva di decorazioni sempre più pretestuose e superflue, l’omologazione delle vetrine dei negozi, le mistificazioni commerciali (ogni giorno ci vogliono sempre più soldi per acquistare prodotti sempre più scadenti), le città intasate dal traffico, il senso di vuoto che immagino stringa il cuore di molti, ma che quasi nessuno ammette, per non sentirsi estraneo a questa atmosfera di apparenze e superfici, o per non sprofondare nella nostalgia.
Per quanto mi riguarda, caro Natale, non riesco più neanche a fare gli auguri a tutti. Un po’ perché anche gli auguri sono diventati uno slogan, un po’ perché mi domando per quale ragione dovrei augurare Buon Natale a chi pensa soltanto ad accumulare profitti, a chi inquina il meraviglioso silenzio che dovresti regalarci con le urla sguaiate dei portavoce, la maleducazione dei talk-show e le suonerie dei cellulari, a chi basta che faccia un po’ di freddo per seminare la paura di un’Italia stretta “nella morsa del gelo”, a chi a Copenhagen non è riuscito neppure a impegnarsi a ridurre un po’ di emissioni nocive in nome di uno “sviluppo” di cui si parla tanto quando si tratta di salvare una banca o il mercato azionario ma che non prova vergogna sapendo che non è ancora riuscito, non sta riuscendo e non riuscirà a sfamare un miliardo di persone, che evidentemente non interessano a nessuno, soprattutto in questo periodo, perché non acquistano regali, o, per dirla col linguaggio dei pubblicitari, non rappresentano un target significativo. Caro Natale, lo chiedo a te che sei il diretto interessato: che senso ha che si finga di festeggiare ancora in queste condizioni? Che cosa si festeggia realmente? Il fatturato delle multinazionali? La borsa di Francoforte? Il volume d’affari degli ipermercati? No, caro Natale, non ci sto. I miei auguri avrebbero un valore se riuscissero a trasformarsi in pane appena sfornato, in aria pulita, nel candore di una nevicata che nessuno possa permettersi di ridurre a un titolo ad effetto, in odori di bosco e in profumi che dalla cucina si propagano in tutta la casa, in acqua limpida e senza etichette, in terra coltivata con amore e serietà, in oggetti capaci di durare, in idee in grado di semplificarci la vita, in conoscenza, in saggezza, in consapevolezza. Ma non posso tanto, e non mi aspetto miracoli. Posso solo sperare che nonostante tutto ci sia ancora un altro Natale. Magari non necessariamente più bello di quelli che abbiamo vissuto, ma altrettanto vero. Ed è quello che auguro soprattutto a te. Noi tutti, alla fine, riusciremo a ritagliarci qualche momento di gioia o di poesia. O ce la caveremo, come sempre. Ma tu, caro Natale, quest’anno hai proprio bisogno di auguri: tanti, profondi e soprattutto sinceri.
[PS] Dedico questi pensieri a tutti, ma quest’anno, in particolare, al ricordo di mio padre e di mia madre, e di tutti quelli che non ci sono più.
Grazie a tutti è molto bello vedere che attorno a delle parole si possono incontrare tante anime così diverse, laici e credenti, sguardi malinconici e occhi pieni di speranza. Forse significa che è importante esprimersi, forse è proprio quello che manca, la capacità, la voglia, la libertà di farlo senza pregiudizi e condizionamenti. Eppure basta leggere i commenti che state lasciando per capire quanto sia importante, e quanto desiderio ci sia di comunicare e di interagire su ciò che ci accomuna, anzichè su ciò che ci divide. Ecco, proprio queste secondo me sono le tracce dell’etica: passi leggeri che bisogna osservare per riconoscere, saper ascoltare per poterli seguire…
Caro prof grazie:-)
Un abbraccio
Giuseppe
Caro Mentore, questa mattina ho sbirciato la posta presto perchè aspettavo il tuo saluto annuale, con la stessa certezza del messaggio di fine anno del presidente della repubblica… quello di quel Morfeo che anche quest’anno mi rifiuterò di ascoltare.
Lo scenario post Copenhagen annichilisce per la totale mancanza di visione di futuro, di vita e di prospettiva, cose di cui credevo e speravo fosse ammalata solo l’Italia. Però credo che le persone veramente arrabbiate attorno a noi siano moltitudini, e moltitudini in crescita: certo, serve riuscire a canalizzare questa esasperazione in un modo per scalzarli, questi poteri forti e pervasivi.
Ci riusciremo senza dover scendere ancora un pò più giù nel baratro? mmmmm, mi sa di no, servirà andare ancora un poco più giù. E allora gli auguri facciamoceli fra di noi di cuore e di forza, per essere accorati e coesi, per cercare l’armonia e la leggerezza. Auguri per esser “pronti” e cittadini consapevoli che non si fanno zittire, schiacciare, intimidire.
… i Natali sono momenti strani, spesso un vicolo stretto in cui lane spesse e mandrie di cammelli familiari devon passare per forza, almeno una volta all’anno; solo da poco, da quando posso costruirmeli, li trovo momenti più sereni. E dopo giugno, questo è natale speciale 😉
A tutti i lettori del blog di Rotta, piena gioia e desideri leggeri!
eli
Ciao Mario,
Ti avevo promesso che in rete ti avrei dato del tu e intendo mantenere questa promessa 😉
E’ una lettera meravigliosa, che condivido in pieno. Hai usato delle parole incantevoli nel descrivere i tuoi sentimenti per il Natale, prima, durante e dopo.
Spero non ti dispiaccia se mi unisco alla tua preghiera per un mondo migliore e nel quale io continuo ancora a sperare e alla tua dedica fatta con tanto Amore per i tuoi genitori. Mi hai fatto tornare alla mente anche i miei che purtroppo non ci sono più e appartengono ad un’altra dimensione… Ad un mondo parallelo, voglio chiamarlo così…
Grazie Mario, grazie di cuore!
Federica
Caro professore, noi non ci conosciamo e non so per quale via la rete mi ha concesso l’opportunità di leggere le sue interessanti riflessioni.
La ringrazio.
Mi permetto, con caro affetto di partecipare a lei ed a quanti ci leggono, la gioia di un Santo Natale ed all’auspicio di un sereno anno nuovo.
Tra i molti pensieri sul Santo Natale, ho scelto quello solito, perché è una rasoiata e fa pulizia dei nostri stucchevoli buonismi di comodo.
Quanto scritto da quel grande uomo che era Don Tonino Bello ci interroga (ovviamente me per primo) e, almeno per qualche istante, veniamo portati, a riflettere per qualche attimo sui nostri egoismi.
Se dovessi trovare una frase, parafrasando Obama, direi: Yes, we can’t.
Si, noi non possiamo (e capite bene cosa) è l’augurio per un anno nuovo e soprattutto per un uomo nuovo.
Un abbraccio, un caro ricordo e un 2010 ricco di pace, serenità e solidarietà.
Dalle riflessioni di don Tonino Bello vescovo di Molfetta (1935/1993):
un uomo veramente a piombo.
Auguri scomodi (don Tonino Bello)*
Carissimi, non obbedirei al mio dovere di vescovo, se vi dicessi “Buon Natale” senza darvi disturbo. Io, invece, vi voglio infastidire.
Non sopporto infatti l’idea di dover rivolgere auguri innocui, formali, imposti dalla routine di calendario.
Mi lusinga addirittura l’ipotesi che qualcuno li respinga al mittente come indesiderati.
Tanti auguri scomodi, allora , miei cari fratelli!
Gesù che nasce per amore vi dia la nausea di una vita egoista, assurda,
senza spinte verticali e vi conceda di inventarvi una vita carica di
donazione, di preghiera, di silenzio, di coraggio.
Il Bambino che dorme sulla paglia vi tolga il sonno e faccia sentire il
guanciale del vostro letto duro come un macigno, finché non avrete dato
ospitalità a uno sfrattato, a un marocchino, a un povero di passaggio.
Dio che diventa uomo vi faccia sentire dei vermi ogni volta che la vostra
carriera diventa idolo della vostra vita, il sorpasso, il progetto dei
vostri giorni, la schiena del prossimo, strumento delle vostre scalate.
Maria, che trova solo nello sterco degli animali la culla dove deporre con
tenerezza il frutto del suo grembo, vi costringa con i suoi occhi feriti a
sospendere lo struggimento di tutte le nenie natalizie, finché la vostra
coscienza ipocrita accetterà che il bidone della spazzatura,
l’inceneritore di una clinica diventino tomba senza croce di una vita soppressa.
Giuseppe, che nell’affronto di mille porte chiuse è il simbolo di tutte le
delusioni paterne, disturbi le sbornie dei vostri cenoni, rimproveri i
tepori delle vostre tombolate, provochi corti circuiti allo spreco delle
vostre luminarie, fino a quando non vi lascerete mettere in crisi dalla
sofferenza di tanti genitori che versano lacrime segrete per i loro figli
senza fortuna, senza salute, senza lavoro.
Gli angeli che annunciano la pace portino ancora guerra alla vostra
sonnolenta tranquillità incapace di vedere che poco più lontano di una
spanna, con l’aggravante del vostro complice silenzio, si consumano
ingiustizie, si sfratta la gente, si fabbricano armi, si militarizza la
terra degli umili, si condannano popoli allo sterminio della fame.
I Poveri che accorrono alla grotta, mentre i potenti tramano nell’oscurità
e la città dorme nell’indifferenza, vi facciano capire che, se anche voi
volete vedere “una gran luce” dovete partire dagli ultimi.
Che le elemosine di chi gioca sulla pelle della gente sono tranquillanti inutili.
I pastori che vegliano nella notte, “facendo la guardia al gregge ”, e
scrutano l’aurora, vi diano il senso della storia, l’ebbrezza delle attese,
il gaudio dell’abbandono in Dio.
E vi ispirino il desiderio profondo di vivere poveri che è poi l’unico
modo per morire ricchi.
Buon Natale! Sul nostro vecchio mondo che muore, nasca la speranza.
Ciao Mario, quest’anno ho deciso di non spedire auguri per le ragioni che tu hai molto bene espresso. Aspettavo i tuoi … però. Da condividere e così coinvolgenti.
Un caro saluto e un abbraccio.
Patrizia
Mario, sono a Roma. I tuoi auguri giungono come un vero conforto. Leggere le tue memorie sul Natale di quando eri bambino mi ha commosso facendomi tornare indientro nel ventre caldo della memoria. Un abbraccio a te e chi ti vuol bene. Auguri. Fernando Erica Zeno
Caro Prof.
ti ho letto tutto d’un fiato…
Hai scritto quello che tanti hanno in animo… poi… cambiando il nome del muschio da borraccina in “pizu” e le pietanze del cenone della vigilia (nel mio paese d’origine, Mormanno in Calabria manguiavamo le “nove cose” nove di numero e nuove di sapore…) mi ritrovo perfettamente nelle tue parole.
Un caro saluto ed un abbraccio
Ferdinando
grazie Mario per essere riuscito a tradurre con parole le sensazioni che mi stavo portando dentro e che non riuscivo a capire, quel senso di disagio e di insofferenza al quale non sapevo dare una collocazione.
Grazie per avermi aiutato a capire.
Un abbraccio
Beatrice
Mario caro, sei unico e rendi sempre unici i tuoi auguri. Spero di rincontrarti presto
Grazie a tutti voi, per le vostre parole e soprattutto per aver compreso. Le mie immagini sono in rete e si sentono libere di essere raccolte da chiunque voglia lasciarle andare o inseguirle, come impronte nella neve…
Ho l’impressione che la crisi porti a recuperare ciò che di bello c’era nell’atmosfera natalizia di una volta: la semplicità, la creatività, la profondità degli affetti.
Caro Mario come tutti gli anni aspettavo i tuoi auguri che quest’anno ho trovato in rete. Bellissimi profondi se non ti dispiace te li chiedo in prestito per dedicarli anche al mio di padri, che troppo presto è stato strappato alla vita che amava tanto.
Come sempre splendida l’immagine, un abbraccio sincero, Antonella
senza parole..Mario è splendida e mi unisco agli auguri a chi non c’è più..
Claudia