Mio padre se ne è andato dieci anni fa. E ora anche mia madre non c’è più. Di queste ultime settimane mi resterà il ricordo indelebile e feroce del suo respiro irregolare prolungato dall’ossigeno, e altre di quelle immagini anonime, eppure nitide, attraverso cui la morte si manifesta, anche se non vogliamo crederci: le gocce della soluzione fisiologica che precipitano come se un abisso le inghiottisse per sempre; i capelli che si scompongono anche sfiorandoli appena; un ultimo sguardo senza che la sua bocca potesse pronunciare una parola, prima del coma irreversibile, come un messaggio che non saprò mai ricambiare perché mi ci vorrà molto tempo per riuscire a interpretarlo. Per tanti anni mia madre si è lasciata accompagnare da improvvisi silenzi, quasi l’eco sorda del vuoto che la morte di mio padre le aveva lasciato. Ma ora, vedendola svanire senza un suono o una voce, mi chiedo se sia davvero questo il senso delle cose, e so già la risposta: non lo è, non lo sarà mai, non c’è nessuna ragione per cui si debba morire così, come in qualunque altro modo. L’unico significato, se proprio ne abbiamo bisogno, è nella storia che abbiamo scritto, nella memoria, o almeno in ciò che possiamo raccontare. Ed è proprio quello che voglio fare adesso. Raccontare un po’ di lei, e attraverso di lei anche di mio padre. Mi torna in mente la circostanza grazie a cui si sono conosciuti, quando la loro vita era ancora tutta intera, e ciò che è stato era appena cominciato, e avrebbe potuto essere altro. Pare che nell’Italia appena uscita dal disastro della guerra ragazzi e ragazze cercassero corrispondenti per scriversi delle lettere ed eventualmente fare conoscenza (i social networks non hanno inventato nulla). Un collega o un amico di mio padre, che allora lavorava a Firenze, aveva avviato una corrispondenza con mia madre, che a un certo punto gli chiese di mandarle una fotografia. Ma il collega si sentiva brutto e inadeguato e chiese a mio padre, che invece era un bel giovanotto, se poteva mandare una sua immagine al posto della propria, quanto meno per vedere cosa sarebbe successo. Così mio padre dette al collega una sua fotografia e l’amico la invio a mia madre, che rispose contraccambiando con un suo ritratto e accennando alla possibilità di incontrarsi. A quel punto l’amico di mio padre non se la sentì di andare oltre nell’inganno, e disse a mio padre se per caso avesse voluto portare avanti lui stesso la corrispondenza, ed eventualmente incontrare quella ragazza così carina. Mio padre vide la fotografia di mia madre e decise di conoscerla. Le scrisse, si dettero un appuntamento, si incontrarono. E da allora sono sempre stati insieme, nella gioia e nelle difficoltà, attraversando la vita. Non so quanto sia vera questa storia, o come siano andate esattamente le cose: queste poche righe sono ciò che resta di racconti frammentari, che si riferiscono a episodi accaduti molti anni prima che io nascessi. Ma forse è andata proprio così, o almeno mi piace pensarlo: due sguardi che prima ancora di incrociarsi si sfiorano indirettamente attraverso due immagini che non erano ciò che sembravano. Ho cercato spesso delle tracce che potessero confermare queste circostanze, e alla fine ho ritrovato proprio quelle due fotografie, quelle che si scambiarono un po’ per gioco un po’ per caso alla fine degli anni quaranta. Mio padre aveva 24 anni. Mia madre 18. Erano bellissimi. Ed è così che li voglio ricordare. Perché ogni volta che li guarderò, com’erano allora, dalla roccia scura della loro morte possa sgorgare una lacrima di malinconia, ma con la stessa forza di una sorgente d’acqua limpida, capace di crescere fino a diventare un fiume, un mare, un orizzonte.
In ricordo di mia madre ho deciso di sostenere, insieme a Daniela e Alessandro, Alzheimer Italia, la federazione delle associazioni che si occupano della ricerca sulla malattia di Alzheimer e dell’assistenza ai malati.
Di fronte alla morte ritorna in me puntuale la domanda “Cos’è la Vita?”.
Qui, tra e con le tue parole, ho trovato una risposta.
E la tua chiusa, orizzonte, ancora una volta resiste. Parola resistente è.. più che la morte.
Con infinito affetto,
grazie.
Quando una grave perdita ci colpisce, si apre in noi una voragine nella quale il pensiero vaga senza un preciso orientamento… tornano alla mente i giorni appena trascorsi, la sofferenza dell’ospedale… le nostre sciocche illusioni: un minimo gesto, un battito di palpebre, un pasto mezzo consumato dalla persona cara ci ha fatto pensare che non sarebbe accaduto, che non avremmo incontrato la morte… siamo fragili e ciechi e restiamo in attesa di parole che non possono più raggiungerci.
Il nostro pensiero vaga e indaga, cerca di capire il senso, gli affetti e la felicità di una vita che non c’è più, ma è molto difficile dipanare i fili che compongono le trame di un’esistenza o di un matrimonio, ed è un bene, in fondo, che sia così.
Alla fine restiamo solo noi e il nostro sentirci persi senza riferimenti sicuri, senza la certezza di avere qualcuno disposto a preoccuparsi di noi anche quando non ci comprende.
Privati delle fondamenta della nostra esistenza ci aggrappiamo alla memoria e ci spaventa l’idea che questa possa abbandonarci e tradirci, che il ricordo delle persone care si indebolisca, che i lineamenti dei loro volti sbiadiscano e non siano più così nitidi… ma non è questo ciò che importa. In realtà le persone che ci sono state vicine, che ci hanno amato, non ci abbandonano mai. L’ amore che da loro abbiamo ricevuto con i gesti, con gli sguardi prima ancora che con le parole vive dentro di noi, è parte di noi, non ci resta che restituirlo al nostro prossimo, perché veramente noi siamo ciò che abbiamo donato.
Partecipo al tuo dolore e ti abbraccio con affetto.
Francesca
Solo adesso ho appreso la terribile notizia della morte della tua cara e indimenticabile mamma. Ho letto il tuo “epitaffio” e ti ringrazio d’averla scritta a ricordo della cara estinta. Tutti coloro che la leggeranno e che la conoscevano, non possono fare a meno di riesumare bei ricordi della sua conoscenza e della sempre, per me, poca frequentazione. Erano una bellissima coppia. ROCCO E ADRIANA. E, le foto che tu hai messo sono le figure che io ho impresso nella mia memoria nel loro ricordo. Una coppia affiatata che ha saputo vivere. quando venivano a reggio erano giorni di festa per tutta la famiglia. avevano un ricordino per tutti a me portavano un libro della collana salgari sandokan. io, quei libri, li divoravo. loro così mi hanno aiutato ad imparare a leggere. caro mario ti do le mie piu profonde condoglianze, il mio dolore oso paragonarlo al tuo anche se conosco il dolore per la perdita della mamma. è stata una forte perdita. ADRIANA era una persona difficile da dimenticare da viva adesso la terremo sempre nel nostro cuore come merita nel posto migliore.
Commossa. Mi si gonfia dentro un uragano spesso di ricordi. Non c’è farmaco, solo pensieri in costante e rapido riavvolgimento confuso. Anche se mille secoli passassero, nulla potrebbe cancellare o modificare il sentimento di infinita perdita ed incompletezza.
Grazie, Mario, per le parole che hai scritto.
Come sai è fresca, dentro di me, la stessa insanabile ferita; lo stesso sbigottimento di fronte a quell’ultimo sguardo che tu definisci perfettamente “come un messaggio che non saprò mai ricambiare”.
Scrivi che “l’unico significato… è nella storia che abbiamo scritto, nella memoria”: lo penso anch’io, tuttavia sto scoprendo in questi mesi anche un altro “luogo” in cui mi sembra di scorgere tracce significative delle persone con le quali la nostra vita si è intrecciata (e con chi si è intrecciata di più della propria madre?).
Il luogo siamo noi stessi: il modo in cui siamo fatti, il modo in cui reagiamo a quanto ci accade, quello in cui commentiamo dentro di noi gli eventi della vita. Non solo la memoria dunque, ma lo stesso tessuto di cui sono fatti i nostri pensieri porta vistose tracce della sensibilità e del carattere di chi ci è stato vicino come nessun altro. Scopri queste tracce e ti sentirai parte di un flusso di vita e di pensiero che trascende il singolo individuo, svela connessioni insospettate e consente di sentirsi vicini anche adesso.
Bellissima questa storia, che si tinge di rosa nonostante il bianco e nero delle foto che le hanno dato origine. Profonde e piene di speranza le parole di Quadrino, che richiamano il pensiero del suo più illustre omonimo:
La morte delle persone che amiamo ci fa toccare il paradosso più grande della nostra condizione umana, ovvero il nostro limite e la nostra aspirazione all’infinito.
Da giovani la vita è tutta bellezza, energia, speranza, come le splendide foto dei tuoi genitori che hai condiviso qui stanno a mostrare; poi, con gli anni, prevale la debolezza, la fragilità, la malattia, come gli stessi nostri cari che invecchiano e si ammalano ci ricordano, negli anni del loro declino.
Ma quella è la vicenda terrena del corpo, non del nostro essere spirituale, che invece è sempre lo stesso, nella salute e nella malattia, nella giovinezza e nella vecchiaia.
“La vita non è tolta, è trasformata”: queste parole della liturgia cristiana che ho ascoltato ancora una volta la scorsa settimana mi sembrano davvero illuminanti. L’essenza di ogni uomo è spirituale, e questa essenza è quella che sta nel nostro sguardo, nella espressione del volto o nel gesto, negli affetti, nei pensieri e nella nostalgia di infinito che portiamo nel nostro cuore.
La morte non toglie la vita, come la vecchiaia o la malattia non spengono lo sguardo e l’espressione, l’amore e la bellezza dell’anima, per chi sa riconoscerli. La trasforma. La porta in un’altra dimensione, estranea ai nostri sensi che spesso ci ingannano, al tempo che logora ogni cosa, al mondo finito che ci rende fragili e vulnerabili.
La trasforma in una essenza nuova, in cui mi piace pensare che alla fine abiteremo anche noi, ritrovando i volti, gli sguardi, i gesti delle persone che abbiamo amato.
Che dire? Mi vengono in mente queste parole: “la morte non è mai dolce, è sempre un attentato alla vita”. Questo lessi tanti anni fa in “Una morte dolcissima” (un libro ormai introvabile, credo), quando ero ancora alla ricerca di una consolazione per la perdita di mio padre. Anche io persi il significato delle sue ultime parole, pochi attimi prima che entrasse in coma. Forse non volevano dire nulla; oppure erano un augurio per chi restava, un ultimo saluto…non l’ho mai saputo, ma ben ricordo di quell’attimo le sue lacrime mute, scendere sulle gote scarne e grige.
Grazie per la segnalazione del sito di Alzheimer Italia: fra la marea delle associazione spesso non si riesce a capire quali hanno veramente un significato.
Cordialmente,
Nicoletta