Nel dibattito sulla scuola che da settembre tornerà a riempire le pagine secondarie dei giornali, le mailing-list per pochi vecchi amici, i blog con meno di 25 lettori e qualche buon caro vecchio volantino appeso in bacheca, continuano a persistere – a mio parere – almeno 3 ambiguità, che definirei “insanabili” se l’aggettivo non evocasse uno scenario ospedaliero, introducendo un’ulteriore ambiguità nella discussione. La prima riguarda cosa si intende per scuola pubblica, la seconda i presupposti dell’innovazione tecnologica, la terza il concetto di valutazione. Sono temi assolutamente politici, su cui, purtroppo, la destra marcia e la sinistra arranca, l’una e l’altra dal basso di una sostanziale cecità e dall’alto di una tendenziale voglia di mantenere il confronto/scontro su un piano apparentemente ideologico per non entrare realmente nel merito dei problemi: che vorrebbe dire identificarli, discuterne, affrontarli e se possibile risolverli. Senza pregiudizi e condizionamenti.
Ma torniamo alle ambiguità appena accennate. Penso che prima di tutto valga la pena riflettere, mettendo da parte un certo conformismo e perfino le emozioni, sul concetto di scuola pubblica e sull’equivoco di fondo che condiziona qualsiasi ragionamento sensato su questo tema fondamentale. L’equivoco ricorrente è la sostanziale confusione tra scuola “pubblica” e scuola “statale”. Per la destra la scuola statale equivale alla scuola pubblica, per la sinistra il contrario. Così i primi cercano di smantellare la scuola pubblica in quanto statale (avendo in odio almeno a parole qualsiasi forma di statalismo), i secondi difendono la scuola statale in quanto tale, ovvero in quanto (apparentemente) pubblica. Sono posizioni che nascondono una contraddizione: una scuola “pubblica” (a mio parere) dovrebbe infatti essere di tutti e per tutti, ovvero essere gratuita, accessibile da parte di chiunque e a tutti i livelli (il che significa integrazione, abbattimento delle barriere architettoniche, rispetto delle diversità, ampiezza e completezza dei programmi di insegnamento e così via) e aperta alle istanze della società civile, ovvero in grado di formare i “cittadini” di oggi e di domani, senza distinzioni di sesso, razza, religione o altro. Questi principi potrebbero e dovrebbero essere applicati indipendentemente dalla natura giuridica della scuola. In ogni caso il fatto che una scuola sia statale non implica di per sé che gli stessi principi siano attuati: molte scuole statali non sono gratuite, non sono accessibili e non operano come potrebbero e dovrebbero sui significati e le implicazioni del concetto di “cittadinanza” (italiana ed europea, ma anche universale o digitale). Dalla sinistra che vorrei mi aspetterei di conseguenza non tanto una difesa della scuola statale in quanto tale, e meno che mai di questa scuola statale, ma l’avvio di un progetto a lungo termine su come costruire anche in Italia una scuola che possa dirsi realmente “pubblica”.
Il secondo equivoco riguarda l’innovazione tecnologica. Provo ormai un certo sconforto nel constatare che se ne discute ancora in termini di opportunità e che le perplessità che solitamente emergono in merito siano legate soprattutto agli interessi personali, alle conoscenze effettive e agli atteggiamenti dei funzionari, dei presidi, dei docenti, delle parti sociali, dei genitori, degli editori e magari anche degli eruditi e degli enti locali. In pratica, il problema viene affrontato (si fa per dire) considerando tutte le componenti del sistema-scuola… tranne che gli studenti. Eppure dovrebbero essere proprio gli studenti il punto di partenza di qualsiasi ragionamento sull’importanza e sul ruolo delle tecnologie come fattore di innovazione in ambito didattico. Se così fosse, avremmo già capito che gli studenti sono pronti, aperti e disponibili, e che non si interrogano tanto sui presupposti e sulle implicazioni delle tecnologie, ma sulle ragioni insondabili per cui a scuola (con l’eccezione di qualche isola felice presidiata da qualche insegnante volenteroso) si finge che non esistano o che se ne possa fare a meno. Diciamolo apertamente: la scuola italiana è indietro di 10-15 anni. Ma non rispetto alle scuole di altri paesi: è in ritardo rispetto al mondo nel suo complesso, rispetto alla realtà, quella stessa realtà che, ci piaccia o no, ci circonda e ci condiziona, e che potremmo a nostra volta condizionare se la conoscessimo meglio, se avessimo gli utensili “cognitivi” per poter reagire se e quando non ci piace più la direzione verso cui si sta muovendo, o la forma che sta assumendo. Utensili che oggi sono in gran parte rappresentati proprio dalle tecnologie dell’informazione e della comunicazione e dalla competenza con cui si utilizzano. Ma a scuola – quanto meno in molte, troppe scuole – tutto questo non si insegna e di conseguenza non si impara: più che indietro, la scuola italiana appare ferma, imprigionata “dentro” una visione del mondo che adottando un brutto termine mutuato proprio dall’evoluzione tecnologica potremmo ragionevolmente definire “obsoleta”. Un mondo dove ancora si pensa che l’uso “eccessivo” delle tecnologie possa rappresentare un pericolo, ignorando ambiguamente che è proprio l’analfabetismo tecnologico che spinge ad un approccio acritico e crea i presupposti del divario e della dipendenza, come potrebbe spiegarci facilmente chi si occupa di media education. E dove, altrettanto ambiguamente, si ritiene che l’innovazione tecnologica sia un processo che si può decidere se e quando innescare in base a presupposti ancora da discutere, ignorando che un conto è la scelta personale e individuale (di per sé rispettabilissima) di interessarsi o meno di una determinata tecnologia, un conto è il ruolo e l’atteggiamento consapevole che una scuola “pubblica” dovrebbe comunque avere rispetto a un fenomeno in atto, alle istanze che esso comporta e all’importanza che rappresenta per i cittadini di domani. Ma intanto abbiamo perso del tempo prezioso: oggi la scuola dovrebbe semplicemente “assorbire” le tecnologie in quanto strumenti per interagire con il mondo. Gli stessi strumenti che gli studenti possiedono e usano già. Per aiutarli a usarli meglio, con più consapevolezza, con più “intelligenza” (e sottolineo le virgolette). La destra non ha una visione organica su queste problematiche. Spesso “usa” le tecnologie come alibi o come paravento: è gente limitata, non si può pretendere di più. Ma dalla sinistra che vorrei mi aspetto che si dica a chiare lettere che è ora di avviare investimenti strutturali di ampia portata in questa direzione, e che non è più ammissibile che nella scuola si possa ancora pretendere di insegnare senza utilizzare o addirittura senza neanche conoscere le ICT. Mi aspetto in sostanza che si rilegga il concetto di autonomia come opportunità per spingere i dirigenti e le altre componenti dell’organizzazione scolastica ad assumersi la responsabilità di essere veicoli del cambiamento e dell’innovazione; e che si ridisegni il profilo professionale dei docenti, introducendo il principio della competenza tecnologica sia come elemento indispensabile per l’accesso all’insegnamento che come parametro per il riconoscimento di incentivi e per la valorizzazione del ruolo dei docenti che hanno investito e investono nel potenziamento delle proprie conoscenze rispetto all’utilizzo delle tecnologie in ambito didattico.
Questo ragionamento porta alla terza riflessione, quella sulla valutazione. Un tasto che nella scuola italiana non si può neanche sfiorare (vi ricordate di Berlinguer?) ma su cui di tanto in tanto tornano sia la sinistra che la destra, non necessariamente da diversi punti di vista. L’ambiguità in questo caso è tra principio e metodi. Non si discute quasi mai su come si possano introdurre dei meccanismi di valutazione della didattica e del lavoro dei docenti, dei dirigenti o di altre componenti, e in che cosa potrebbero consistere, ma sul presupposto stesso della valutabilità. Così, ad esempio, tra le reazioni alla bozza di riforma Aprea, non emergono ragionamenti che affrontano lucidamente il problema interrogandosi su come migliorare certe ipotesi o ridefinire le modalità del rapporto tra docenti, dirigenti, componenti e organizzazione della scuola, ma prevalgono esternazioni come questa: “ogni docente sarà ricattabile e licenziabile, poiché verrà posto sotto il giogo di decisioni arbitrarie piovute dall’alto e persino dall’esterno, classificato in fasce di merito (leggasi di demerito) e verrà valutato non in base a un merito proprio e oggettivo (titoli di studio, cultura personale…), ma, come dicevamo, secondo la sua produttività”. Ma di che cosa stiamo parlando? La verità è che se la destra spinge sull’introduzione di forme di valutazione pensando forse di utilizzarle per ridurre il numero degli insegnanti e recuperare qualche euro, la sinistra è contraria alle valutazioni in quanto tali. Dimenticando o ignorando non solo che valutare seriamente la didattica e gli insegnanti potrebbe introdurre finalmente nella scuola fattori di qualità e incentivi al miglioramento, ma anche che la tanto auspicata innovazione metodologica fondata sulla ridefinizione del ruolo dei docenti e sulla centralità degli studenti rispetto ai processi di apprendimento, sbandierata e sostenuta proprio dall’ala impegnata e progressista della ricerca pedagogica, implica di per sé il principio della valutazione rigorosa delle competenze, delle strategie didattiche e dei risultati ottenuti, superando la sovrapposizione ambigua tra il concetto di libertà di insegnamento sancito dalla costituzione e la pretesa arbitraria di insegnare senza alcuna forma di controllo o di verifica, che non è affatto una garanzia dell’indipendenza dei docenti, ma un modo per abbassare costantemente la soglia di credibilità della scuola. Proprio quello che interessa a chi non cerca altro che occasioni per smantellare il sistema scolastico e sostituirlo con una scuola non-pubblica, cioè a pagamento, non accessibile a tutti e centrata sull’appartenenza di parte anziché sulla cittadinanza.
Mi rendo conto che si tratta di temi complessi e controversi, su cui ci vorrebbe ben altro che un post su un blog soltanto per identificare i termini esatti del problema. Ma sono stanco di questa destra aggressiva, razzista, buffona e indifferente rispetto al valore della conoscenza, così come, in parte, anche di una certa sinistra che su questi argomenti si dimostra spesso ottusa, conservatrice fino all’immobilismo, ancorata a modelli scontati e conformista. Dalla sinistra che vorrei mi aspetto invece che si dica senza mezzi termini che la scuola non va difesa ma cambiata, e si indichi come. Spiegando con altrettanta chiarezza che la prima vera riforma consiste nel migliorare la qualità dell’insegnamento e dell’apprendimento, ovvero nel restituire alla scuola valore e significato e agli insegnanti dignità e passione. Per aiutare i nostri ragazzi a costruire il futuro e gettare le basi di un mondo migliore. Pretendo troppo?
Illuminante la distinzione fra scuola pubblica e statale. Io sarei per la scuola pubblica, con grande valorizzazione dei docenti (alte retribuzioni, importanza data a pubblicazioni e altre attività culturali al di fuori della scuola, formazione continua ai contenuti, alla didattica e alle ICT), abolizione di programmi e libri di testo, destrutturazione delle aule e degli orari a favore della stoà, di gruppi in e outdoor, ecc., e da parte dello stato stabilire linee guida generali e output da ottenere (p. es. da un istituto tecnico deve uscire un meccanico capace di fare…..).
Sulle ICT ovviamente siamo d’accordo. Un mio amico ha fatto un sito per gestire on line la segreteria, ma glielo hanno bloccato perché avrebbero dovuto formare il personale da mettere dietro il sito stesso.
Sulla valutazione degli alunni, trovo ancora funzionale la scala da 1 a 10 con i + e – dei miei tempi. Una innovazione potrebbe essere il voto dato dall’insegnante, da se stessi, dai compagni. In tal modo lo studente potrebbe confrontare la valutazione che si dà da solo e quella che gli danno gli altri (ho applicato questo metodo nel mio corso all’Accademia dell’Aquila, e spesso gli studenti sono più severi di quanto non sarei io). Ovviamente vanno chiariti e concordati i criteri in base ai quali vengono assegnate le numerazioni.
Sulla valutazione dei docenti vale quanto detto sopra: una volta stabiliti output chiari e concreti, se il docente porta tutti gli allievi agli output richiesti, è eccellente, altrimenti è buono o scarso. Al di fuori della scuola, se gli allievi lavorano, si inseriscono bene nella società, hanno successo come persone (non soldi e tv, ma autorealizzazione armonica), eccellono in qualche abilità, gli insegnanti sono stati bravi e possono fregiarsene, nè più nè meno come una società di consulenza fa se un suo cliente ha ottenuto una buona performance.
M’ero perso questo post!
Nel frattempo, e indipendentemente, avevo scritto sul mio blog: http://www.columba.it/2009/09/22/impossibile-valutare-gli-insegnanti/
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Ciao Mario,
la tua è una descrizione lucida e dettagliata del cuore di problemi, che sono politici nel senso ampio del termine, ovvero problemi dei quali i decisori hanno il dovere di farsi carico, qualunque sia la loro appartenenza partitica, perché la scuola è di tutti ed è centrale per il futuro del paese, e questo va detto non solo come slogan elettorale, ma dimostrato nei fatti e nell’impegno.
Come sai, sono problemi tutti che mi stanno a cuore e ai quali sto dedicando la mia attività professionale, partendo da una posizione che vuole essere dichiaratamente apartitica, perché ritengo che l’aver fatto della scuola sempre e solo un terreno di scontro tra parti opposte ne ha aggravato i problemi e ha contribuito all’immobilismo.
E allora il mio punto di vista e di lavoro è quello di un professionista che nella scuola opera, che nella scuola crede e che ritiene che sia indispensabile lavorare per il cambiamento, che va costruito tramite un ridisegno normativo, ma che passa poi attraverso l’adeguata formazione dei docenti.
Ben venga, quindi una legge, come quella di cui si discute attualmente, che è allo stato di proposta e attorno alla quale si è raccolto progressivamente il contributo ed il consenso mediato dei diversi portatori di interessi, che oltre a ridefinire l’assetto organizzativo delle scuole in modo da dare attuazione reale all’autonomia e consentire ai diversi organi di governo l’assunzione di chiare responsabilità, introduca un sistema di valutazione a più livelli, incluso quello dei professionisti che operano nella scuola: dirigenti e docenti. Un sistema di valutazione che avrebbe lo scopo di valorizzare la qualità del lavoro di ciascuno, a partire dai risultati ottenuti sul campo e non solo dal curriculum degli studi e delle esperienze pregresse e dall’anzianità lavorativa.
Tu osservi che manca, nella discussione, la chiara enunciazione delle modalità attraverso le quali si perverrebbe al giudizio valutativo. La legge ha il compito di introdurre il sistema, i regolamenti attuativi poi ne specificheranno le modalità, e questi sono tutti ancora da costruire: non vorrei che l’intento sia quello di bloccare l’iter della proposta di legge, così da frenare ancora una volta il cambiamento alla radice.
I professionisti della scuola hanno idee al riguardo e discutono di soluzioni attuabili, anzi spetta proprio loro il compito di contribuire alla costruzione del cambiamento: questo è il ruolo di un’associazione professionale e questo è il compito che si assume l’associazione di cui sono vicepresidente presso i decisori politici, indipendentemente dalla parte cui appartengono, perché ai professionisti sta a cuore la scuola.
Sarebbe troppo lungo qui presentare i dettagli del modello, che è appunto un modello e come tale aperto alla discussione ed è il confronto ciò che promuoviamo continuamente negli incontri con i colleghi.
Per i dettagli rimando ai documenti nell’”Area docenti” del nostro sito (www.anp.it) e ai nostri interventi nei diversi contesti istituzionali, dico però sinteticamente che ciò che proponiamo è un sistema in cui la valutazione sia estesa a tutti, con sufficienti garanzie nella composizione dei soggetti giudicanti e della loro indipendenza, in modo che i presidi siano messi in condizione di scegliere gli insegnanti e siano poi valutati sui risultati della loro scuola e che per i docenti il merito e l’impegno siano collegati a concrete e vantaggiose condizioni di carriera.
Sono e siamo convinti che non basterà la legge, ci vuole il coinvolgimento reale della scuola nel cambiamento, e ciò passa attraverso una rinnovata formazione in ingresso e in servizio. Concordo pienamente con quanto dici riguardo dell’innovazione tecnologica e sono allo stesso modo convinta che anche in tal caso essa passi attraverso un’adeguata formazione e selezione di dirigenti e docenti e attraverso una razionalizzazione degli investimenti nell’istruzione.
Insomma la scuola ha bisogno di una vera e propria rivoluzione culturale. E’ indispensabile iniziare a provare il nuovo, a cominciare dall’avvio dell’autonomia, facendo perno sul principio di responsabilità.
Licia Cianfriglia
Vicepresidente nazionale ANP – Associazione Nazionale Dirigenti e Alte Professionalità della Scuola
Condivido parola per parola quello che hai scritto Mario. Siamo in effetti incastrati fra una finta innovazione (destra) e una ottusa conservazione (sinistra), con il solo risultato che il sistema educativo resta l’immobile specchio di una società bloccata, chiusa e degradata. Come dicevamo insieme tempo fa, ci troviamo in mezzo al surreale contrasto fra conservatori e reazionari, e per noi che crediamo nell’innovazione sono tempi duri, molto duri…