Penso, anzi, spero che un tema come quello di cui sto per parlare faccia parte del prossimo “dibattito” sulla “riforma” della scuola. Lo so che parlare di “dibattito” e di “riforma” suona politichese, e non vorrei certo essere frainteso. Voglio soltanto dire che in tanti anni di duro lavoro sul campo, in trincea, dove si sperimenta l’innovazione insieme agli insegnanti, ho capito che non sono le alchimie sul curriculum o le pseudo-rivoluzioni metodologiche che restituiranno alla nostra scuola un volto umano. Sarà la capacità di riportare al centro di ogni discussione prima di tutto gli studenti, e poi qualcosa che vorrei chiamare passione. Cosa si può pretendere di insegnare se non si riesce o non si vuole stimolare la curiosità intellettuale, la gioia della scoperta, la voglia di sperimentare? Ce lo hanno sussurrato uomini come Papert, o Brown, ci hanno detto che la scuola dovrebbe diventare una “community of thinking”, un ambiente senza pareti, trasparente rispetto al mondo e non orgogliosamente separato, isolato nelle sue astrazioni. E dovremmo crederci, provarci, perché è (ancora) a scuola che prendono forma gli esseri umani, ed è una responsabilità troppo importante, nessuno può permettersi di delegarla. Nella mia lunga esperienza di formatore di insegnanti spero di aver lasciato qualche traccia di “passione”. Ma se ci penso sono sicuro di averlo fatto una sola volta, a Carpi, poco dopo che era morto, ancora molto giovane, un carissimo amico, che viveva proprio lì. Ero in uno stato emotivo difficile da gestire quel giorno, e anziché impostare la mia conferenza sulle slides e tenendo a mente obiettivi da raggiungere e conoscenze da trasferire, mi lasciai andare a una sorta di monologo su cosa avremmo potuto fare per recuperare il piacere di fare scuola, come insegnanti, e restituire ai ragazzi il piacere di frequentarla, puntando sull’integrazione delle tecnologie, su reali innovazioni, metodologiche, organizzative, sociali. Non ricordo esattamente cosa dissi, ma lasciai perdere i modelli teorici e feci esempi concreti, cercai di immaginare cosa si sarebbe potuto fare. E ci misi letteralmente l’anima. Dopo un’ora ero stremato. Ma alla fine della conferenza un’insegnate si alzò in piedi e disse, con un po’ di emozione, che come molti colleghi era demotivata, ma voleva ringraziarmi perché ascoltandomi aveva ritrovato un po’di speranza, aveva capito quanto poteva essere importante, aveva di nuovo voglia di mettersi in gioco. Non avrei potuto fare di più, neanche con un intero ciclo di seminari… quell’insegnante non aveva acquisito da me nessuna informazione, ma aveva trovato nel mio discorso spunti per cominciare a pensare. Vorrei riuscire a fare altrettanto ogni volta che entro in un’aula o lavoro in rete, anche se so quanta fatica comporta. Perché insegnare e imparare non sono una passeggiata programmata da un’agenzia turistica: sono un cammino faticoso, un viaggio, dentro e fuori di noi. E proprio come in un viaggio dovremmo evitare di concentrarci troppo sulla nostra meta, per non perdere la bellezza del paesaggio che stiamo attraversando…