C’era una volta un paese che sapeva attraversare la storia con eleganza: era parte della storia, la anticipava, si assumeva la responsabilità delle conseguenze delle scelte e dei gesti che comportava, sapeva osservarla, capirla, raccontarla. Oggi questo paese non c’è più, e non sembra che stia per riemergere dall’ombra senza tempo in cui si è nascosto. Può darsi che la storia in quanto tale sia ormai finita, come ci ricorda un controverso autore. Ma temo che la realtà sia diversa. Siamo un paese senza storia perché non sappiamo più viverla. O peggio, perché non vogliamo. Negli ultimi 30 anni la Germania è stata riunificata, la Spagna è uscita dal suo isolamento e sta diventando un paese moderno e dinamico, la Francia ha continuato a confrontarsi con i grandi temi sociali e a pensare in grande, la Gran Bretagna è passata da una spaventosa crisi a una stagione di nuova vitalità economica, gli Stati Uniti hanno continuato nel bene o nel male a determinare ciò che accade nel mondo, e tanti altri paesi hanno attraversato e attraversano cambiamenti epocali, che ci piaccia o no: la Russia è cambiata non si sa quante volte, la Cina è irriconoscibile, l’India è in evoluzione, qualcosa sta ricominciando a muoversi anche in Africa, per non parlare dell’America Latina. L’Italia no. Non ha vissuto nulla di tutto questo, se non di riflesso. Non si è mossa dalle sue opache abitudini, da una lunga sequenza di giorni quasi tutti uguali. Non ha più scritto la storia, e a volte sembra che non abbia neanche provato a leggerla. Non ha affrontato crisi difficili o dolorose, ma non ha neppure saputo sognare, o immaginare il futuro. Come se tutto ci scivolasse addosso senza consistenza: avvolto in una nube di cinismo e disincanto, disillusione e menefreghismo. Dopo millenni di grandi eventi e grandi personaggi, nell’ultimo secolo abbiamo accettato re che non meritavano nulla, abbiamo creduto in dittatori da operetta, ci siamo barcamenati in una guerra che non volevamo ma non abbiamo avuto il coraggio di rifiutare, nè di perdere, nè di vincere. Abbiamo vissuto una stagione di ricostruzione e di rilancio, ma senza consolidare il nostro ruolo nel mondo. Abbiamo protestato senza troppe barricate, e poi sparato nel mucchio senza riuscire a fare neppure una rivoluzione sbagliata. E alla fine cosa è rimasto? Soltanto la deriva di una voglia infantile di vacua superficialità, che ormai ci accompagna dagli anni 80 senza un’incrinatura, senza nausea. Una specie di nebbia della ragione ci avvolge: quello che conta sono i saldi di fine stagione negli outlet dove si riciclano gli avanzi delle boutiques, gli episodi di cronaca nera raccontati all’infinito come se fossero misteri, quando non sono altro che squallide verità nascoste ad arte, i nostri filmetti che non dicono nulla perché non c’è più niente che si possa davvero raccontare, e quelle interminabili discussioni che a ogni angolo di strada, in ogni bar, nel salone di ogni parrucchiere, ripropongono in moviola tutto ciò che accade nel cosiddetto “mondo” del calcio, senza che nessuno si renda conto che è soltanto un ambiente falso e rivoltante, dove convivono (grazie alla cecità degli appassionati) dirigenti corrotti e corruttori, ragazzini ricchi e viziati, interessi illegali e bande di criminali. Intanto i nostri politici che sembrano usciti da un armadio dimenticato in soffitta parlano di equilibri ma non sanno proporre progetti, discutono di riforme ma non sono capaci di confrontarsi con un cambiamento, chiedono sacrifici (da quanti anni!) ma non riescono a indicarci un sogno da realizzare, qualcosa per cui valga la pena combattere. Non abbiamo più neanche un poeta che ci ricordi che comprendere la storia non serve a renderla più vera o più giusta: forse perché non c’è più niente da comprendere. Tutto è paradossalmente chiaro: siamo un paese senza storia perché la storia ci spaventa. Dovremmo assumerci delle responsabilità per esserne protagonisti, e non sappiamo farlo, abituati come siamo a delegarle in cambio di qualche piccolo favore, magari millantato da chi si crede potente perché gli altri lo credano. Dovremmo fare delle scelte, rischiando ciò che abbiamo, e non ne siamo capaci, perché in fondo ci basta poco, e quel poco, bene o male, siamo riusciti a garantircelo mantenendo inalterato un sistema dove tutto sembra che cambi perché nulla possa cambiare, e dove ognuno è disposto a barattare la propria dignità per qualche insignificante privilegio, purché sia, accettando perfino che il prezzo da pagare siano i privilegi, ben più grandi, di altri, e altri ancora, in una catena senza fine di tacite complicità. Dovremmo essere liberi, e non possiamo, perché per “cavarcela” ci siamo indebitati con qualcuno, che a sua volta è in debito nei confronti di qualcun altro. Non nascondiamoci dietro il paravento della fine della storia o del buon senso di chi sa che così va il mondo: non è vero, il mondo va verso dove riesce a spingerlo chi ha il coraggio di provarci. Quel coraggio che ci manca, per via di quella paura che ci impedisce perfino di accettare semplicemente l’evidenza, lo stato delle cose: siamo un paese che non conta nulla, e non fa nulla per contare qualcosa. L’unica cosa che ci resta sono le nostre colline coronate di castelli e abbazie, le nostre città piene di tesori, la buona cucina, i vini eccellenti, un minimo di capacità di saper vivere la quotidianità con la leggerezza che merita. Ma stiamo lavorando per distruggere o sperperare anche tutto questo…
Grazie a Roberto, grazie a Carlo. Ogni volta che leggo commenti intelligenti riaffiora subito il mio innato ottimismo: ce la faremo perché ci sono tante persone che sono stanche dell’immobilismo e della ristrettezza degli orizzonti in cui ci muoviamo. Basta alzare una voce e tante altre voci si alzano, ciascuna con la sua tonalità, insieme assonanti come un coro che intona un canto condiviso, un tema che ci accomuna. Bisogna solo trovare la forza per portare avanti questa nostra idea di rinnovamento: siamo liberi, per fortuna, non abbiamo accettato compromessi e non dobbiamo nulla a nessuno. Ed è proprio da questa “nostra” libertà che potremmo ricominciare…
M
Riflessione densa, accorata e insieme molto equilibrata. Se le cose andranno di questo passo, qualcuno, dopo “non-luogo”, userà anche l’espressione “non-paese” per connotare l’Italia.
Nel commento precedente Roberto conclude con un “COSA FARE”.
Credo che la risposta, almeno a parole, sia abbastanza semplice: tutti noi dovremmo semplicemente fare sul serio quello che facciamo. Attenzione! Non sto dicendo che non siamo seri. Non lo penso e non mi permetterei . . . Intendo dire che se io che cerco di insegnare a scuola facessi davvero il mio mestiere di insegnante, applicando le regole sino in fondo, valutando con esattezza il raggiungimento degli obiettivi formativi, senza considerazioni di ordine più o meno antro-socio-psico-filosofiche-moralistiche, denunciando le inefficienze del sistema e degli individui, allora le cose cambierebbero! Intendo dire che ognugno di noi dovrebbe veramente fare quel che gli compete e altrettanto veramente dovrebbe pretendere dagli altri che lo facciano. Qui c’è da cambiare una intera cultura. I padri dei miei alunni appartengono ad una generazione che per trovare un lavoro non ha dovuto imparare a fare qualcosa. Ha solo dovuto sobbarcarsi le anticamere dei politici del paese e del quartiere! Come potrebbero, i loro figli, pensare in termini di qualcosa vagamente somigliante ad una motivazione?
La scommessa qui è veramente grande: o troviamo un modo di cambiare – dal di dentro – questa cultura “italiana”, oppure, ed è l’ultima delle cose che mi auguro, dovremo aspettare qualche bella guerra, magari preceduta da qualche stupido e becero neofascismo, per trovare la forza di “ricostruire”, la dignità di scrivere delle regole vere, la determinazione ad andare avanti su basi nuove e condivise.
Caro Mario,
come non condividere le tue parole? Su questa tema ci sta crescendo una letteratura, e le responsabilità del popolo italiano per le condizioni in cui si trova cominciano ad essere evidenti … Però bisogna vedere se queste riflessioni le consideriamo un punto di arrivo o un punto di partenza; c’è, infatti, il rischio che anche queste si perdano nel calderone della lamentale nazionale. Il punto è COSA FARE …
R.