Probabilmente la morte di Ingmar Bergman passerà inosservata: è estate, è tempo di vacanze, e Bergman si era ritirato da anni su un’isola. Non faceva più parlare di sé, o meglio, non permetteva più alla cronaca che si parlasse di lui, ma solo alla storia di parlare delle sue opere. Chi mai potrà accorgersi della sua scomparsa se era già scomparso? E a chi verrà in mente di incrinare l’allegra superficialità delle notizie sul tempo, sul traffico, sulle canzonette e le cosiddette “cronache mondane” (a proposito, ma che vorrà mai dire?) per suggerire di rivedere o anche solo ricordarsi di aver visto film difficili, tragici, cupi come solo lui riusciva a fare? Eppure certe immagini sono dentro di noi, indelebili. Come l’immagine del cavaliere che gioca a scacchi con la morte sulla spiaggia, un’immagine che mi insegue da quando ero poco più che un bambino, e che mi attrae forse perché non riesco a raggiungerla, nonostante abbia davvero provato a giocare a scacchi con la morte qualche tempo fa, nonostante abbia attraversato paesaggi desolati, anime senza vita. O come il girotondo di storie immaginate e osservate da Fanny e Alexander: non mi vergogno a dirlo, ho visto quel film con gli occhi pieni di lacrime, dall’inizio alla fine, e penso che sia stato perché ci diceva semplicemente che per vivere bisogna saper sognare, così come per poter sognare bisogna saper vivere. E poi c’è la malinconia. Non saremmo nulla senza la malinconia: è la compagna di viaggio dell’amore, è la grande traduttrice, l’angelo psicopompo che traghetta le parole che escono dalla nostra anima verso le paludi della vita, dove possono annegare o trovare una via d’uscita verso la luce dell’alba. Non mi preoccupa la morte di Bergman, doveva succedere. Mi preoccupa la morte della malinconia, e della nostalgia che ne rappresenta l’ombra, l’angelo. Ogni giorno cerchiamo di ucciderle nella nostra vana ricerca di una realtà edulcorata, senza apparente dolore, confondendo il sorriso, che è la risposta dell’anima alla luce che ha faticosamente inseguito, col sorridere, che è solo un atteggiamento di comodo per cercare di sentirsi simili ai manichini che passano sugli schermi. Per questo anziché parlare dei film del grande maestro (non occorre un’altra voce di circostanza…) oggi vorrei soltanto scusarmi con lui. Mi dispiace, caro Ingmar, ma il posto delle fragole non c’è più: è stato bruciato da un piromane d’accordo con la camorra, calpestato da turisti della domenica che stavano telefonando per ricaricarsi e non se ne erano accorti, imbrattato dalla carta di un cornetto algida o acquistato da una multinazionale per sperimentare innesti ogm coperti da una dozzina di brevetti. O più probabilmente non c’è più perché cerchiamo di scacciare la malinconia e non sappiamo più cosa sia la nostalgia, perché abbiamo paura dei ricordi, del tempo, delle passioni più profonde e della capacità di piangere pensando a ciò che poteva essere e non è stato, o a ciò che è stato e non è più. Lo facciamo per sentirci protagonisti in una vita che recitiamo male su un copione scritto da altri, ma in realtà non siamo più neanche delle comparse su una scena dove forse nemmeno gli ultimi saltimbanchi si salveranno dalla peste, e dove la morte peggiore, quella dell’anima, sta vicendo ogni giorno la sua partita con mosse così semplici che perfino un bambino potrebbe reagire. Se solo riuscissimo almeno a ricordare cosa significa essere bambini, e meravigliarci per un fiore che sboccia, per uno sguardo che abbiamo perso o per un profumo in un bosco…