Ma sì. Sono proprio quattro parole. Quattro parole dimenticate o trascurate che mi piacerebbe sentir pronunciare più spesso e che sarebbe bello pensare che possano costituire la base di un programma politico “di sinistra”, o almeno di quell’idea di sinistra libertaria in cui vorrei riconoscermi, se ne ritrovassi le tracce. Sono parole molto semplici, ma cariche di significati:
- Libertà
- Serenità
- Tolleranza
- Gratificazione
Sia la sinistra che la destra, nelle loro infinite sfaccettature, abusano delle parole, e talora ne mettono insieme moltissime, troppe, il più delle volte vacue, oscure, incomprensibili per chi non fa parte dei delicati equilibri del sistema di potere che sia la destra che (purtroppo) la sinistra hanno contribuito a costruire. Ma queste quattro parole, così belle, così musicali, non si sentono pronunciare quasi mai, e si leggono raramente sui giornali. Eppure potrebbero ridare soprattutto alla sinistra un ruolo chiaro, obiettivi che vadano oltre l’autoreferenzialità. Addirittura una strategia politica che faccia uno sforzo per superare l’emergenza del breve termine a cui siamo condannati da decenni…
Se c’è una parola che appartiene intimamente alla storia della sinistra questa è libertà. Ma sembra che la sinistra se ne vergogni, tanto da lasciarla pronunciare a sproposito a una destra che non sa neppure cosa sia. A me piace pensare che il concetto di libertà sia il fondamento della politica. La libertà come punto di partenza e la libertà come motore del mondo. La libertà dell’individuo rispetto alle comunità in cui si riconosce e il rispetto reciproco della libertà altrui. La libertà che andrebbe scritta, come diceva un poeta, sui quaderni degli scolari, e poi riscoperta, per tutta la vita, come opportunità per continuare a guardare oltre. La libertà come fine da perseguire, ma soprattutto come moneta da spendere. Vorrei riconoscermi in una sinistra che riscopre la libertà come valore e se ne riappropria, un partito democratico, certo, ma prima di tutto libero.
Della serenità non parla quasi nessuno. Eppure abbiamo il diritto di essere sereni, di sentirci sicuri, di vivere liberamente nelle città o andare dove ci piace senza sentirci in pericolo. La destra parla di “sicurezza” per invocare più controlli. La sinistra non sa cosa dire. Mi piacerebbe una sinistra capace di contrapporre il concetto di serenità al concetto di sicurezza. Capace cioè di andare oltre la logica delle “aree videosorvegliate” e delle telecamere nascoste che limitano la nostra capacità di movimento, per attuare una politica che agisca sulle cause dei pericoli potenziali a cui i cittadini sono esposti. Se non facciamo qualcosa per aumentare la serenità continueremo a perdere giorno dopo giorno ancora un po’ della nostra libertà: e una società in cui i cittadini non si sentono “sereni” è un passo verso il totalitarismo. Non so a voi ma a me non piace affatto!
La tolleranza è un’altra delle grandi eredità della modernità che nelle società democratiche è stata sperperata e dispersa. Per due secoli se ne è discusso, per arrivare a confonderla con l’incondizionata accettazione (o, per contrapposto, l’incondizionato rifiuto) di tutto ciò che non riusciamo a comprendere, o più semplicemente a controllare. Ma la tolleranza non ha nulla a che fare con il relativismo culturale: è nella capacità, e nella volontà, di ascoltare e capire gli “altri”, senza per questo giustificarli; è nella capacità di dialogare civilmente, evitando lo spettacolo indecoroso dei battibecchi da bar dello sport che la classe politica ci propone sempre più spesso. Significa saper accettare una sconfitta, e saper amministrare una vittoria: è l’essenza stessa della democrazia. Perché ce ne siamo dimenticati? Perché non riusciamo più a essere intelligentemente tolleranti?
E infine la gratificazione. Vorrei poter dire “felicità”, se non avessimo letteralmente regalato il concetto alla pubblicità, che ha trasformato la felicità in una finzione, in un obbligo, quando era (ed è) uno dei diritti fondamentali dell’uomo. Ma mi accontenterei di sentirmi “gratificato”: vorrei cioè che la sinistra in particolare si facesse interprete dei miei bisogni valorizzando i miei meriti. Più semplicemente (si fa per dire) vorrei che i nostri ragazzi non fossero costretti a inventarsi un qualsiasi lavoro precario ma avessero l’opportunità di realizzare le loro aspirazioni, senza dover amaramente constatare che le loro capacità non contano nulla, che il valore non è riconosciuto, che si continua a perpetuare un sistema feudale in cui si premiano i vassalli fedeli e sbiaditi e non i “guerrieri” onesti e coraggiosi, né tanto meno i poeti o gli esploratori. Una società avanzata dovrebbe premiare e gratificare chi lo merita, chi sa guardare in avanti, garantendo opportunità a tutti perché possano emergere i migliori: è difficile ma non impossibile…
In questo messaggio non ci sono soluzioni.
Sono solo quattro parole. Per vedere se è arrivato il momento di ricominciare a parlarne…
Ma come la devo chiamare allora? Mario? Io preferisco Professore… Le dispiace? Se le dispiace, non la chiamo più Professore o nel modo abbreviato Prof. Suggerisca Lei un nome … io, poi, lo seguirò… posso darLe un consiglio anche se questa non è ovviamente la sezione più opportuna? Potrebbe creare una chat libera sul Suo blog? E’ sempre piacevole navigare qui … A presto, Olga
Giustissimo Olga: ci sono cose, concetti, emozioni, sentimenti che dovrebbero appartenere all’umanità e basta. Patrimonio di tutti, come dice anche Carlo nel suo bel commento. Ma non è sempre così, perché a volte siamo ancora quelli “della pietra e della fionda”. E forse è per questo che qualcuno deve farsi interprete di certi valori, non per farne una bandiera, ma proprio perché siano a poco a poco condivisi. Io non perderò mai la speranza…
M
PS. Ma non chiamarmi professore 😉
E mi lasci aggiungere ancora un piccolo commento Professore … non è una questione di destra o di sinistra … credo che sia solo una questione di ignoranza se qualcuno non è in grado, per svariati motivi, di rispettare queste 4 parole! Olga
Belle parole Professore! Ma la Sua è un’utopia se spera che qualcuno Le possa mettere in pratica … non ci sarà mai nessuno in grado di rispettarLe … ma io sono ancora fiduciosa e attendo … giorno dopo giorno … io aspetto … Olga
Ciao Mario, scopro solo adesso questo tuo blog. Il tuo intervento contiene molti riferimenti e fa vibrare molte corde, di quelle “importanti”. Mi piace molto che tu abbia incluso “tolleranza” in queste quattro parole. Vorrei contribuire a quanto da te detto con una osservazione della differenza tra le culture che hanno abbracciato le religioni monoteiste, cristianesimo, islam ed ebraismo, che si caratterizzano per condividere, almeno in parte, lo stesso “libro” e per avere compiuto le stragi più abiette grazie proprio alla mancanza di tolleranza del loro dogmatismo. Le culture che hanno abbracciato le religioni politeiste si sono dimostrate generalmente più tolleranti: qui a Palermo le comunità Tamil (induiste) hanno letteralmente adottato il culto di Santa Rosalia, la patrona della città, frequentandone il santuario come e più degli stessi palermitani. Il pensiero poi va ad un National Geographic di tanti anni fa che pubblicava un articolo sul Nepal aprendolo con la parola Tolerance che campeggiava a mò di capoverso e che descrive l’incredibile atteggiamento di rispetto reciproco delle diverse comunità induiste e buddiste presenti in quel paese. Per trovare qualcosa del genere qua in europa bisogna tornare ai tempi della corte normanna a Palermo e ancora di più alla Cordoba della simbiosi tra cristiani, musulmani ed ebrei. La mia risposta alla tua domanda potrebbe essere (ma ovviamente lungi da me la pretesa di dire l’ultima parola o di potere esaurire l’argomento): perché siamo stati educati a credere a quanto scritto in un libro anzi “NEL” libro, a tal punto che al buon cattolico è praticamente fatto divieto di averne perfino una interpretazione personale . . .