È passato quasi un anno. Anzi, un po’ più di un anno, da quando ho provato a proporre di mettere un piede fuori dalla porta di casa durante il lockdown. Per fare un passo avanti, motivato, un gesto simbolico, un gesto civile. Ho ottenuto un po’ di comprensione e di solidarietà. Ma anche tanti, troppi insulti. Me ne hanno dette di tutti i colori, augurandomi perfino di finire in una terapia intensiva, cosa che ho effettivamente rischiato qualche mese dopo. Di quei giorni colpiva soprattutto la sensazione di essere stati catapultati in un deserto. Per strada non c’era nessuno, non passava nessuno, come nella scena di un film apocalittico. Un’informazione terrorizzante e terroristica aveva ridotto la popolazione ad una massa di gente sopraffatta dalla paura: “moriremo tutti” era una delle frasi più comuni in ogni conversazione. Come se fossimo vivi. Qualcuno, comunque, timidamente, quel piede fuori dalla porta lo ha messo. Doveva essere il primo. Ma non si sono fatti molti altri passi avanti da allora. L’unico che ho notato è quello della pubblicità di una nota marca di assorbenti intimi femminili, magari potevano anche ringraziarmi per aver avviato l’hashtag. Ma ora che è passato un anno, che cosa significa fare un passo avanti? Pubblicità esclusa. Apparentemente, non c’è più il clima di terrore dell’anno scorso. O meglio, non è cambiato nulla, formalmente siamo confinati nel territorio comunale (una disposizione evidentemente nata dalla mente di qualcuno che non conosce neanche la geografia italiana), c’è il coprifuoco, ci sarebbe anche l’obbligo di indossare mascherine perfino dove non c’è nessuno nel raggio di decine o centinaia di metri. Ma tutto sommato si vede di nuovo gente in giro, anche se non si sa a fare cosa; ma “andrà tutto bene” ricorre più spesso di “moriremo tutti” nelle conversazioni. Come se fossimo vivi. Già, come se fossimo vivi. Perché a questo punto io mi domanderei se lo siamo davvero o siamo soltanto dei superstiti presunti, che pensano e sperano di poter sopravvivere a una catastrofe dai contorni incerti e indefiniti, su cui dopo un anno forse dovremmo ragionare con una maggiore apertura mentale e con più lucidità, dati alla mano, facendo confronti, recuperando, senza per questo essere considerati pericolosi o irresponsabili, la voglia di discutere di politiche, di interessi in gioco, di educazione, di cultura e culture, di democrazia, di libertà, insomma di tutto ciò per cui vale la pena essere vivi, anziché comportarci come se lo fossimo. E invece non ci allontaniamo dalle abitudini che abbiamo preso in questo anno terribile: in particolare la peggiore, la rassegnazione per abitudine. Sento le persone per strada parlare solo di vaccini, di mascherine, di virus; non c’è più un argomento di conversazione interessante, che so, nessuno che parli del tempo, almeno di quello, se non altro. Nessuno che parli di cose veramente importanti. Non che non lo siano anche queste, ma non possono essere l’unico argomento di conversazione, perché questo vorrebbe dire che non abbiamo più nulla da dirci. Che parliamo solo per rompere il silenzio a cui non avevamo dato ascolto quando era il caso di farlo. Come se fossimo vivi. A me non piace vivere come se fossimo vivi. A me piacerebbe vivere in pieno: che vuol dire poter decidere liberamente quello che ho voglia di fare, nel rispetto degli altri ovviamente, ma senza sentirmi trattato come un deficiente o un eversore se suggerisco che forse è il caso di mettere in discussione limitazioni e disposizioni che evidentemente non hanno funzionato, se dopo un anno siamo ancora qui a parlare di lockdown, di zone rosse, arancioni o arancione scuro. Come se fossimo vivi. Quando siamo solo spettri che camminano, talmente frastornati da tutta questa storia da non sapere più come comportarsi con chi si incontra, quando ci si incontra, se ci si incontra. Perché ormai siamo completamente fermi, immobili, paralizzati, anche se ci sentiamo ancora come se fossimo vivi, mentre nella migliore delle ipotesi stiamo resistendo fino a quando la nostra pazienza ce lo permetterà o (temo) fino a quando ce lo permetterà chi sta abusando della nostra pazienza. O forse, fino a quando scopriremo di aver buttato via, nell’interesse di pochi e nell’indifferenza di molti, anni preziosi della nostra vita. Come se fossimo vivi.
Sono parole preziose e perfette…Ma la descrizione del milieu sociale fatto da Mario è fin troppo buono e troppo indulgente. Siamo di fronte al più grande rincoglionimento di massa ad opera senz’altro di esperti in tecniche di manipolazione delle masse nei confronti di un popolo gregge che sta aspettando solo di venire deportato per la soluzione finale. Si potrebbe parlare di una ipnosi collettiva di chiara reminiscenza tardo romantica di derivazione dal Mago di Maugham, ma anche qui mi sentirei troppo buona.
Il Gregge è semplicemente sul baratro e sta scegliendo l’abisso. Amen.
Requiescat in pace