In un paese come l’Italia è abbastanza difficile essere “laici” nel senso più forte e completo della parola. Per fortuna ci sono delle circostanze in cui essere laici rappresenta un vantaggio, sia pur minimo. Una di queste circostanze sono sicuramente le elezioni: cercare di leggerle laicamente permette di allontanarsi da quel tanto di faziosità che in queste occasioni prevale, affinando di conseguenza quel tanto di distacco che è essenziale per poter azzardare un’analisi plausibilmente lucida della situazione. Dove lucida vuol dire che non mi interessa tanto ribadire chi ha vinto e chi ha perso, né, tanto meno, gioire o rattristarmi di questo o quel risultato. Per un laico, inoltre, non rappresenta una priorità neppure capire il perché del risultato che si è configurato: lascio volentieri i ragionamenti sul perché agli opinionisti e cerco piuttosto di concentrarmi sul cosa e sul come, ovvero su cosa potrebbe succedere adesso e su come potrebbe succedere.
Ma ragionare su questo implica, in una prospettiva laica, qualche puntualizzazione preliminare. Ad esempio, bisogna dichiarare se si parla della Politica (con la P maiuscola) o della politica (con la p minuscola), anche se questa volta, in entrambe le prospettive si possono forse individuare 3 errori. Anzi, 3 per 2. Come se fosse stagione di saldi. Cominciamo a parlare di politica, dunque, con la p minuscola. Qui i 3 errori (per 2) sembrano relativamente facili da individuare, soprattutto se si riducono a uno: la sinistra ha sbagliato. Tre volte: la prima perché si è presentata frammentata e disunita, la seconda perché si è concentrata di più sui rapporti di forza interni che sul dialogo con i cittadini, la terza perché ha probabilmente sottovalutato gli altri schieramenti. Ma come da premessa non è di questo che mi interessa ragionare: capire perché qualcuno ha vinto e qualcuno ha perso non serve a molto e sicuramente non indirizza né determina il formarsi di un governo, né le scelte che l’eventuale nuovo governo dovrà o potrà fare.
La prima serie di errori va piuttosto cercata, come in una trama di Durenmatt, nel modo in cui ciascuno dei tre grandi interlocutori (lo so, è una semplificazione, ma è necessaria) ha impostato il dialogo o più spesso lo scontro con gli altri; è qui che vedo distintamente 3 gravi errori. L’errore del movimento 5 stelle è stato quello di essersi concentrato sulla demolizione del PD. L’errore del PD è stato quello di non aver mai considerato i 5 stelle come possibili interlocutori alternativi ad un dialogo compromissorio con una parte della destra. L’errore della destra è stato quello di aver considerato le improbabili alleanze interne come funzionali al risultato, sperando che il risultato stesso ne chiarisse la natura e ne indirizzasse l’esito, ignorando le enormi e contraddittorie divergenze evidenti nelle rispettive posizioni. Il primo errore ha quasi certamente agevolato il successo della destra; il secondo impedisce una delle possibili soluzioni di governo; il terzo limita pesantemente il peso effettivo e complessivo della destra e quindi la credibilità stessa della coalizione, oltre che, di conseguenza, la possibilità concreta di qualsiasi trattativa con altri interlocutori, che non saprebbero di fatto a chi credere e con chi cercare un’eventuale accordo. Per capirci meglio (semplificando al massimo e parlando di politica con la p molto minuscola): Di Maio non può dialogare con il PD sia perché i suoi elettori non lo accetterebbero sia perché il PD sa bene che se non si è determinanti è meglio stare all’opposizione; Renzi non può recuperare un compromesso con Berlusconi perché sa che ne uscirebbe ulteriormente indebolito (e poi basta con certa gente, non se ne può più…), né può tentare adesso di parlare con Di Maio; Salvini non può dialogare con Di Maio perché incrinerebbe subito l’apparente coesione della sua coalizione (e a differenza di Di Maio non ha alternative nella scelta di un eventuale altro interlocutore).
Ora, se questo scenario porterà ad un governo purché sia o a nuove elezioni a breve non è poi così importante se dalla politica si passa alla Politica. Purtroppo è in questo passaggio che si svelano altri errori: 3 per 2 questa volta. Nel senso che gli errori sono 3 ma li hanno commessi almeno in 2. C’è un primo errore di fondo nelle modalità del confronto politico in Italia: l’aggressività verbale, l’insulto gratuito, la delegittimazione degli avversari prevalgono sul reciproco rispetto. Non si tratta di abbassare i toni del confronto (che anzi, in caso di confronti diretti potrebbero benissimo essere anche più accesi): si tratta di accettare e condividere (da parte di tutti) una prassi di “garanzia di attendibilità”. Che significa che ogni interlocutore politico va ascoltato e rispettato per ciò che dice, indipendentemente dal fatto che si sia d’accordo o meno con lui. Questo è uno dei fondamenti stessi della democrazia, ma è anche un modo per evidenziare il fatto che nel dialogo politico non ci sono soltanto dei personaggi che possono permettersi di ricoprirsi di improperi come se fossero al bar o allo stadio, ma anche (anzi, soprattutto) tutti coloro che quei personaggi, in un modo o nell’altro, rappresentano: tu chiamali, se vuoi, elettori; io li chiamo cittadini, persone. Ascoltarsi con rispetto è un modo per restituire a quei cittadini, a quelle persone una dimensione effettiva, un valore. Ai saldi dell’errore su questo punto è abbastanza semplice capire chi sbaglia: i 5 stelle da un lato e Salvini dall’altro sono maestri in questo decadimento progressivo del dialogo a monologo arrogante e autoreferenziale. Per quanto sembri che a breve termine quell’approccio sia addirittura pagante, l’effetto a più lungo termine non può che essere negativo: prima di tutto, gli altri reagiranno di conseguenza (se getti fango addosso a qualcuno, aspettati che qualcuno getti fango su di te: non è questione di se e di come, è solo questione di quando…), contribuendo peraltro alla spirale discendente; in seconda istanza, saranno gli stessi elettori/cittadini a capire col tempo che i toni sopra le righe rischiano di offuscare, rendere invisibili i loro bisogni e le loro aspettative.
Ed è qui che si annida il secondo errore, che è quello di pensare che sia sufficiente conquistare una maggioranza a qualsiasi costo per esercitare il potere in quanto tale e a discapito delle minoranze. La battuta di Andreotti sul potere che logora chi non ce l’ha era sciocca e inadeguata. Il potere logora chi lo esercita, soprattutto se chi lo esercita non lo fa nell’interesse di tutti ma per mantenere il potere in quanto tale. Questo è stato l’errore più grave che ha commesso Renzi, probabilmente. Ed è quello a cui ora sono esposti i 5 stelle e la destra, ammesso che riescano a formare un governo: perché un conto è opporsi a tutto e a tutti secondo lo schema del tanto peggio tanto meglio, un conto è governare un paese complesso e difficile, in cui spesso il pregiudizio prevale sul pragmatismo e l’interesse di pochi prevale sul bene comune.
Ed ecco che si arriva al terzo errore, quello che forse tutti hanno commesso o rischiano di commettere. Ritenere che la politica sia la Politica, ovvero dimenticare che fare Politica non è la tattica con cui si conquista il consenso, ma la capacità di avere una visione del mondo e saper mettere insieme la strategia necessaria per attuarla, aggregando il consenso attorno a un progetto concreto e realizzabile. Questo significa che si dovrebbe recuperare una dimensione etica che invece si è andata sempre più perdendo: una dimensione in cui le priorità siano definite in base all’ampiezza delle ricadute delle relative decisioni, il che significa ad esempio che al primo posto (indipendentemente dal colore del governo) dovrebbero esserci le politiche ambientali (perché l’ambiente riguarda tutti) e quelle culturali (anche la conoscenza riguarda tutti; e l’istruzione è la base di una società civile), entrambe, mi sembra, alquanto trascurate in una campagna elettorale dove hanno prevalso le promesse a vanvera e gli ammiccamenti ai temi di attualità di facile impatto emotivo.
Ma ci portiamo dietro tutti quegli errori: sarà molto, molto difficile muoversi in questa direzione. Il che vuol dire che a suggerire le decisioni, di fatto, potrebbero continuare ad essere dei portatori di interessi parziali (un concetto ampio, ma sforzandosi un po’ si possono anche identificare nelle lobby economiche e via peggiorando), ovvero l’antipolitica di fatto. Per fronteggiare la quale ci vorrebbe una leadership di grande spessore, che, sinceramente, non riesco a vedere o a riconoscere, né, purtroppo, a configurare, se non per esclusione, caratterizzandola come un’entità astratta capace non tanto di mediare, ma di costruire un percorso condiviso. Dove condiviso non significa condivisibile, ma coerente con un insieme di regole accettate da tutti. Chiedo troppo? Buona fortuna, Italia!