Sarà perché amo Barcellona, per quella sua caratteristica bellezza, per quella patina che ne esalta lo splendore, per la sua vitalità e per l’energia che trasmette come poche altre città al mondo. Sarà perché “Omaggio alla Catalogna” di Orwell (che ho letto quando ero ragazzo, nella vecchia edizione de Il Saggiatore) ha rafforzato enormemente il mio rifiuto verso qualsiasi forma di totalitarismo. Sarà perché sono cresciuto sognando un mondo senza confini e senza egoismi. Sarà, ma non posso restare indifferente di fronte a quello che è successo e sta succedendo in Spagna. So bene che si tratta di un problema complesso e delicato; e allo stesso tempo so bene che non finirà come è successo in altri casi analoghi: nessuno manderà i carri armati sulle Ramblas, nessun altro alzerà barricate. O almeno, spero che sia così. Ciò nonostante, tutto quello che è accaduto e sta accadendo è grave: non solo per l’atteggiamento del governo spagnolo, che sta trattando come traditori dei rappresentanti eletti attraverso elezioni democratiche; ma anche per la totale indifferenza dell’Europa. Soprattutto per questo. L’Europa, che ha recepito nei suoi atti fondamentali il riferimento all’autodeterminazione dei popoli della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo. L’Europa, che ha applicato quel principio ogni volta che gli ha fatto comodo (riconoscendo un po’ troppo precocemente la Croazia, ad esempio) e lo ha ignorato ogni volta che non lo ha reputato funzionale ad altri scopi. L’Europa, la cui lungimirante visione politica è stata perfettamente sintetizzata da Juncker, quando ha tentato di fare una battuta dicendo che è già difficile mettere d’accordo 27 stati, figuriamoci il doppio o il triplo! Ma è proprio questo il punto: “mettersi d’accordo” non significa che ognuno cerca di tutelare i propri interessi particolari fino a quando non si trova un aggiustamento o un compromesso accettabile. Si va avanti così in un condominio. Ma l’Europa non è un condominio: è, o meglio, dovrebbe essere una sorta di identità in grado di configurare una nuova epoca storica in cui i cittadini di un’area territoriale vasta, complessa e multiculturale (fino all’altro ieri nemici tra loro) decidono di incontrarsi per condividere una visione comune, superando di fatto il concetto stesso di “nazione” in nome di un bene comune che prima di tutto consiste in un esperimento di pace perpetua, per poi estendersi alla cooperazione economica, all’integrazione sociale, all’interscambio socio-culturale. Tutte ipotesi che non ho certo inventato io in questo momento: sono negli appunti di Altiero Spinelli e di altri padri fondatori. Ma allora, se è così che vorremmo che fosse, perché l’Europa fa finta di ignorare che c’è una questione catalana? Qualcuno, a questo punto, potrebbe rispondere che se vogliamo davvero andare oltre le entità nazionali non ha senso proporne un’altra come hanno fatto autonomamente e democraticamente i catalani. E invece è proprio quello il cuore del problema. Se l’Europa fosse davvero un’identità comune per tutti coloro che vivono tra le coste dell’Atlantico e quelle del Mediterraneo, fino al Baltico e al Mare del Nord, questo comporterebbe una significativa rinuncia alla propria sovranità da parte di tutti gli “stati membri”. Che non avrebbero più senso, così come si sono andati formando e consolidando nel corso dei secoli: non ci dovrebbero essere più patrie se ci riconoscessimo tutti in un’entità più ampia; non ci dovrebbero essere più barriere linguistiche se prevalesse la ricerca dell’integrazione e dell’inclusione; non ci dovrebbero essere più economie legate a specificità locali se si condividesse effettivamente una politica economica comune. In compenso, potrebbero prendere forma una molteplicità di autonomie amministrative, come regioni omogenee all’interno di un macro-territorio senza confini. Ad esempio, una Catalogna libera in una libera Europa, non più costituita da Spagna, Francia, Germania e altri regni o repubbliche, ma da tutti noi: catalani, baschi, francesi, bavaresi, sardi, italiani, slovacchi, estoni, fiamminghi, valloni e quant’altri. A parte il fatto che nella sua ipocrisia l’Europa di oggi ha usato e usa continuamente due pesi e due misure quando si tratta di interferire o meno con le “questioni interne” di uno stato membro, paradossalmente, la scelta di considerare la questione catalana come un problema della Spagna, dettata almeno a parole dalla volontà di mantenere l’Europa più unita ed evitarne la disgregazione, costituisce un fattore di disgregazione ben più potente di quanto non possa esserlo l’autonomia catalana, poiché ribadisce e rafforza proprio quella “sovranità” nazionale che dovrebbe essere superata dall’integrazione europea. Non diventeremo veri europei salvaguardando i singoli governi e gli interessi che rappresentano. Lo diventeremo quando il Consiglio d’Europa esprimerà le rappresentanze di tutti i cittadini che si riconoscono negli stessi principi etici: primo tra tutti il diritto di essere diversi, ma allo stesso tempo disposti ad ascoltarsi, a dialogare, a comprendersi. Sta succedendo questo in Spagna? No. Barcellona non è libera di decidere. E come ai tempi di Orwell sta diventando il capro da sacrificare in nome di una presunta unità spagnola che magari dopo quasi 6 secoli potrebbe essere lecito ripensare e riformulare e di un’oziosa realpolitik di altri stati che contano e che non vogliono né vedere né ascoltare, né dialogare né capire. Eppure, oggi come allora, è proprio la Catalogna il laboratorio da cui potrebbe prendere forma un’Europa nuova, più vera, più nostra.
L’Europa, gli stati, i popoli e altri confini
8 Nov 2017 | Caro Diario
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