Non capisco (o forse non voglio capire) perché si continua a porre la questione del referendum sulla possibilità di effettuare trivellazioni in mare del 17 aprile 2016 in termini che sono molto lontani dalla realtà e dalla consistenza della scelta che i cittadini saranno chiamati ad effettuare. C’è chi punta sul ragionamento economico per sostenere le ragioni del no: se si bloccano le trivellazioni si perdono posti di lavoro, si perde l’opportunità di diventare indipendenti sul piano energetico e via discorrendo su argomenti che sarebbe abbastanza facile smentire, così come avvalorare (in assenza di dati certi). C’è invece chi ne fa una questione politica, ma non nel senso nobile, etimologico della parola: nel senso che si dovrebbe votare sì non per rispondere al quesito in quanto tale, ma per mettere in difficoltà il governo, in nome e per conto di un concetto di “opposizione” che sotto certi aspetti appare fine a se stesso e i cui enunciati sarebbe altrettanto facile sia smentire (in assenza di dati certi) che avvalorare (in presenza di dati incerti). C’è infine chi ne fa più semplicemente una specie di questione di opportunità: tanto il referendum non serve a niente, si buttano via dei soldi e via aggiungendo argomentazioni che nessuno è in grado di smentire o avvalorare (in assenza di dati, in generale). In fondo, sono le tre anime del nostro paese: realismo a tutti i costi (e al confine tra l’interesse e l’opportunismo), idealismo mascherato (con sfumature che vanno dalla retorica antagonista alla ricerca del facile consenso), menefreghismo di comodo (e ammantato di fatalismo). Il tutto per non dire e non far sapere nulla di importante…
Il problema, in realtà, è più semplice di quello che sembra e più complesso di quello che si vorrebbe far sembrare: è un dilemma etico. Riguarda una priorità che dovremmo condividere: quella ambientale. Una priorità che non è né di destra né di sinistra, che non può essere ponderata in termini economici né accettata temporaneamente in chiave pseudo-moralistica o pseudo-ideologica, né, tanto meno, ignorata per superficialità. L’ambiente naturale è uno e uno solo, è l’ecosistema in cui tutti viviamo ed è estremamente fragile. E il mare nè è una componente essenziale: lo stiamo già sfruttando oltre i limiti che può sopportare (per quanto forte sia la sua capacità di rigenerarsi e rinnovarsi) e molti dati (in questo caso certi) ci aiutano a capire che abbiamo raggiunto già una soglia di impatto oltre la quale non possiamo e non dobbiamo assolutamente andare e che anzi dovrebbe spingerci a cercare soluzioni alternative e a elaborare strategie innovative per fare, se possibile, qualche concreto passo indietro. Trivellare i fondali vicino alle coste per cercare gas o petrolio non rientra sicuramente tra le attività compatibili con la necessità etica di tutelare l’ambiente marino (in quanto elemento essenziale della tutela ambientale nel suo complesso). Per rendersene conto, anche volendo mettere momentaneametne in secondo piano le tante evidenze critiche raccontate e documentate da Greenpeace, basterebbe leggere e interpretare senza pregiudizi le analisi, i rapporti, gli studi prodotti perfino da soggetti che non si possono definire di parte: dalle statistiche ambientali del Ministero dell’Ambiente ai rilevamenti effettuati da ISPRA sugli ambienti costieri italiani, fino a vari studi prodotti da ENEA proprio sulle tecnologie alternative alle trivellazioni. Il mare è in pericolo; e dovrebbe essere una delle nostre più vere priorità. Per quanto mi riguarda, andrò a votare sì per difenderlo. E lo farò semplicemente perché so che stiamo parlando di qualcosa che appartiene a tutti. Anche a quella persona che sulla sua piccola barca sta assaporando un momento di equilibrio nella luce riflessa da acque ancora (e per fortuna) incontaminate…