Capire, comprendere, giustificare

Le parole sono importanti. Capire e giustificare sono due verbi che hanno significati molto diversi. Qualunque forma di violenza, ad esempio, bisognerebbe – prima di tutto – cercare di capirla. Il che non significa affatto giustificarla, anzi. Ma capire è un esercizio critico sempre più difficile, in una società residuale, alla deriva, dove prevalgono quelli che credono di capire tutto subito (dimenticando che la chiarezza è un esercizio critico di grande difficoltà, che richiede tempo e capacità di documentarsi, oltre che una valutazione rigorosa delle fonti disponibili) e quelli che confondono il capire con il comprendere, che è ben più di una diversa sfumatura dello stesso concetto, poiché implica una forma di coinvolgimento emotivo: Holmes, per fare un esempio, cercava di capire; Watson cercava di comprendere. Ma nessuno dei due permetteva che capire o comprendere fossero compromessi dalla tentazione di giustificare qualcuno o qualcosa, di chiunque e di qualunque cosa si trattasse. Certo, ci sono dei limiti anche al distacco tra aver capito e essere portati a giustificare. Nel caso delle forme della violenza, ad esempio, è difficile non associare qualche ipotesi di giustificazione alla comprensione di fenomeni di rivolta popolare legati a situazioni estreme come quelle che si sono verificate nel 1789 in Francia o nel 1917 in Russia. Anche se Gandhi ci ha permesso di capire (in senso stretto) che a volte le rivoluzioni possono assumere forme non violente e ottenere ugualmente risultati importanti senza spargere sangue, se non il proprio. In ogni caso, capire, comprendere e giustificare non implicano complicità e non presuppongono automaticamente identità di vedute con l’oggetto o il soggetto delle nostre riflessioni. Ma come si fa a far capire, anzi, comprendere tutto questo in un paese dove chiunque è pronto a strumentalizzare qualunque cosa per il proprio tornaconto o in nome dell’audience e dove, a fronte di un numero crescente di opinionisti più o meno faziosi, scarseggiano i cronisti rigorosi e gli investigatori attenti?

Sulla differenza tra capire e giustificare, e sull’importanza della comprensione, mi permetto di suggerire un bellissimo film di Wayne Kramer, un regista americano indipendente: Crossing Over (2009). Quello della “giusta comprensione” è evidentemente uno dei grandi temi del nostro tempo: sempre più spesso c’è una commistione di interessi e impulsi che rende quasi impossibile l’esercizio della critica, nel più vero senso della parola. Nel film che ho segnalato una delle storie riguarda proprio una ragazzina musulmana che “osa” scrivere un tema per cercare di capire perché gli attentatori delle torri gemelle avessero agito così. Non c’è alcuna giustificazione del terrorismo nel suo ragionamento, ma la ragazzina paga con l’espulsione dagli USA il fatto stesso di aver provato a ragionare su un certo evento. Il problema è che è sempre più così: non si può riflettere con il giusto distacco, si è come “strattonati” da una sorta di semplificazione emotiva indotta, come se di fronte a un fatto ci si dovesse schierare col bene o col male, partendo dalla certezza aprioristica di qual è il bene e qual è il male, anche quando non è così semplice definirli (come accade quasi sempre). E il bello è che questa rigidità di principio di solito è sostenuta da coloro che in infinite altre circostanze sono pronti a scendere a ogni sorta di compromesso. Sembra una battaglia persa in partenza. Eppure dobbiamo continuare a credere nella chiarezza come forma di libertà, nella comprensione come presupposto della tolleranza e nella possibilità di decidere non tanto cosa o chi giustificare, ma se e quando non vogliamo giustificare alcunché: sono forme primarie del diritto di cittadinanza, ovvero la cosa più importante che ci è rimasta, prima di dover concludere amaramente, come Shakespeare, che tutto il resto è silenzio.

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